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mercoledì 23 marzo 2022

Il rapporto Dòdaro-Verri attraverso la critica - intervento di Francesco Aprile

Nell’ottica del percorso che qui mi propongo appare più che mai necessario partire da lontano, inquadrando la situazione all’ombra dei rapporti amicali e culturali intrattenuti da Verri nel corso degli anni, al fine di dimostrare come alcuni di questi siano poi stati fondamentali per l’impianto letterario dell’autore. Per una più limpida esegesi dell’opera, partirò dal 1991, anno di pubblicazione della collana Mail Fiction, ideata da Francesco Saverio Dòdaro, curata dallo stesso assieme ad Antonio Verri che ne sarà anche l’editore con le sue Edizioni del Centro Culturale Pensionante de’ Saraceni. Mail Fiction, ovvero romanzi su cartolina. Narrativa breve, che puntando sui costi bassi di produzione per il supporto-cartolina si proponeva come militanza letteraria-editoriale, svincolando la pubblicazione dai poteri forti dell’establishment culturale, sovvertendo anche i rapporti autore-editore, in quanto, visti i bassi costi di produzione, l’autore diventava, o poteva diventare, editore, annullando la distanza fra le due figure.

Scriveva Dòdaro nell’introduzione: «Mail Fiction: romanzo per posta. Cartolina romanzo, ovvero i paesaggi della parola, le rovine del tempo, le stazioni dei dispersi, i corsi delle lontananze: le piazze dei processi di lutto. […] Il percorso che ci ha portato in questa stazione di frontiera è iniziato lo scorso anno con la collana Compact Type: il romanzo di tre pagine tessuto sull’ordito jamesiano, della short story, del romanzo sintetico futurista, del minimalismo, della new wave. Trame: le unità minime significanti della pubblicità, del marketing e del giornalismo, per un verso, le radicali modificazioni in atto nel lessico, dovute alla massiccia penetrazione dell’inglese: il new stil novo, per altro verso. Altre tappe del viaggio sono state le più recenti Sudden Fiction. American Short Short Stories, il discorso di Foucault sull’usura e l’asservimento del linguaggio e le pagine spartitempo di McLuhan sui media: il medium è il messaggio. Questo il cammino che ci ha portato a formulare l’ipotesi Mail Fiction, articolata su tre direttrici. Brevità: venti, venticinque righi capaci di penetrare nei depositi. New Medium: maggiore adesione dei media all’ora – la pagina del libro si è consumata, perdendo capacità comunicativa e credibilità. Autonomia poietica. […] Inoltre è un tentativo di rifondare la comunicazione interpersonale, sul modello della ‘tradizione orale’» (Dòdaro, F. S., Mail Ficion. Free Lances, 1991).

1.2 Il rapporto Dòdaro-Verri e relative esperienze

L’incontro fra i due autori risale agli anni ’70. Francesco Saverio Dòdaro aveva fondato nel 1976 il Movimento Arte Genetica, un gruppo di ricerca artistico-letteraria, con sede a Lecce, Genova e Toronto, al quale avevano aderito, ruotando attorno alle riviste ed alle attività del gruppo, alcuni fra gli esponenti più in vista della ricerca internazionale, fra questi, ad esempio, Giovanni Fontana, Bruno Munari, Adriano Spatola, Jean-Luc Nancy e molti altri. Antonio Verri era uno di questi autori. Col Movimento Arte Genetica, Dòdaro rintracciava l’origine del linguaggio nella mancanza a essere, di lacaniana memoria, per la separazione del soggetto dal complemento materno, considerando il linguaggio – artistico e non, dunque il linguaggio nella più ampia accezione – come tentativo del soggetto di colmare tale mancanza per la perdita dell’unità duale (onnipotente, simbiotica – M. Klein / simbiotica, onnipotente, totalizzante, duale – M. Mahler) originaria. Il linguaggio è il modus operandi dell’esistente volto a rifondare la coppia. Inoltre, appare una musicalità insita in ogni linguaggio umano, questa è rintracciabile, secondo le teorie “gheniche”, nell’archetipo del battito materno ascoltato in età fetale, ossia la prima forma di linguaggio. Due furono le riviste del movimento: Ghen, con sede a Lecce, e Ghen Res Extensa Ligu, con sede a Genova. Ai fini del discorso qui intrapreso, risulta importante la rivista Ghen, edita a Lecce, e che su idea di Dòdaro si presentava come “giornale modulare”, nell’ottica di quanto da lui espresso più volte, ovvero “il modulo come unità di misura del pensiero”. Dal modulor di Le Corbusier, dunque, da quel concetto per cui l’uomo si fa unità di misura nella disciplina architettonica, alla razionalizzazione in quanto strutturazione e fruizione del pensiero poietico nella condizione di riproducibilità materico-letteraria dello spazio del modulo. Il modulo, anticipava la concezione di brevità che avrebbe portato Dòdaro a formulare la sua idea di romanzo su cartolina. Il modulo misurava, infatti, 16×12 cm, poco più di una cartolina. Il passaggio che porta alla Mail Fiction ha radice negli anni ’70 del movimento di Arte Genetica, passando attraverso altre collane ideate da Dòdaro: Scritture (Parabita, Il Laboratorio, 1989 – scritture di ricerca, poesia verbo-visiva, scrittura simbiotica e concettuale su cartolina), Compact Type. Nuova Narrativa (Caprarica di Lecce, Edizioni C.C. Pensionante de’ Saraceni, 1990 – romanzi in tre cartelle).

Antonio Verri, nel periodo in cui incontrava Dòdaro, appariva impegnato prima nel progetto-rivista Caffè Greco, poi nella rivista Pensionante de’ Saraceni. La prima esperienza di Caffè Greco si mostrava ancora di carattere locale. Successivamente, Verri amplia la sua rete di contatti, aprendo a tematiche di più ampio respiro per la letteratura italiana e non, ospitando autori di livello nazionale, inglobando già a partire dal Pensionante le diramazioni internazionali della ricerca verbo-visiva di Dòdaro, potendo contare, dunque, sulla pubblicazione di autori storici come Lamberto Pignotti, ad esempio.

 1.3 Le avverse vicende del romanzo-cartolina: ambiguità storico-critiche

Il 3 dicembre 1991 sul “Quotidiano di Lecce” un intervento titolava Come fogli al vento. Nasce nel Salento la trasgressiva e funzionale “cartolina romanzo”, proponendo un excursus sull’iniziativa, sulle sue peculiarità, parlando della curatela Dòdaro-Verri e delle precedenti iniziative editoriali. Sabato 22 febbraio 1992, su “Notes. Appunti dal Salento”, un intervento di Silvia Cazzato ricostruiva la storia editoriale di Mail Fiction, l’ideazione di Dòdaro che per non gravare sulle tasche di Verri, propose il progetto ad altro editore, ma che a causa dei lunghi tempi di attesa per la pubblicazione, scelse di contattare Verri. Si legge nell’articolo-intervista: «Non contattai subito Verri. Non era il caso di appesantire ulteriormente il leggendario impegno editoriale di uno degli animi poetici più suggestivi del Mezzogiorno. Conoscevo le sue rinunzie (una “500” per casa, il ritratto della bianchissima Madre sempre sulle pareti del desiderio -, un panino per pranzo). Conoscevo benissimo le difficoltà economiche (partita in rosso per i “Compact” e tante altre cose). Mi rivolsi ad un altro Editore salentino, da anni impostosi in campo nazionale per l’ottima e rigorosa professionalità. La proposta fu subito accolta con grande entusiasmo. […] Quando tutto sembrava andare verso una immediata realizzazione, nacquero delle difficoltà che non si riuscì a superare e che portarono al reciproco disimpegno. I principali ostacoli furono il “tempo”, scandito dalla scaletta aziendale, e la “linea culturale”. La mia posizione: quando si sta in prima linea non si possono fare attacchi a lunga gittata, inoltre bisogna disporre di truppe giovani. […] Una sera, poi, feci accenno a Verri di ciò che avevo sognato. Fu subito inchiostro».

Il primo marzo del ’92 su L’Espresso un articolo intitolato Imbuca quel libro. Nascono i libri-cartolina, attribuiva l’ideazione del romanzo cartolina alla Nuova Compagnia Editrice che su cartolina pubblicava autori noti della letteratura quali Rimbaud, Leopardi, Manzoni. Su La Repubblica del 10 aprile 1992, Simona Poli presentava l’invenzione del romanzo-cartolina attribuendola alla Guaraldi / Nuova Compagnia Editrice, come già avvenuto su L’Espresso. Immediatamente sul Quotidiano del 12-13 aprile 1992 Ennio Bonea nell’intervento Ma il “libro postale” non è una novità scriveva: «Qualche mese fa, Antonio Verri, con una delle solite, inaspettate, sortite, inventò, anzi reinventò, una moda letteraria che aveva dei precedenti: la Mail Fiction, romanzo per posta, come introducendola, scriveva F. S. Dòdaro, compagno di avventate… avventure di Verri». Bonea, così scrivendo, attribuiva a Verri l’ideazione di un progetto editoriale non suo e al cui interno entrava invece come co-curatore e editore, laddove il riferimento di Bonea “reinventò” non svela la paternità dell’idea riconducendola a Dòdaro, anzi la smussa, la copre, accennando soltanto al precedente storico della Mail Art con la New York Correspondence School di Ray Johnson del 1962 (i cui antecedenti appaiono nel Futurismo italiano e nelle esperienze Dada). Diverso è il discorso, eluso, non affrontato da Bonea, riguardante la narrativa postale codificata da Dòdaro. Eppure, l’incipit di Bonea andava oltre, spostando completamente l’asse del rapporto editoriale, letterario, culturale, fra Dòdaro e Verri, capovolgendone i ruoli con l’utilizzo, forse grossolano, di una sola parola, quel “inventò” che pospone in apertura al nome di Verri, dando avvio ad una serie di ambiguità storico-critiche che trovano dunque una prima storicizzazione in quel suo intervento dell’aprile 1992.

2. Il rapporto Dòdaro-Verri nelle critiche di Maurizio Nocera

2.1 Nebbie bibliografiche

A Maurizio Nocera, amico e collaboratore di Verri, ma in diverse occasioni anche collaboratore di Dòdaro, si devono la ripubblicazione delle prime opere di Verri, tutte per le Edizioni Kurumuny: Il pane sotto la neve…più altro pane; Il Fabbricante di Armonia; La Betissa. Inoltre, va considerata l’operazione con cui vengono raccolti i numeri del Quotidiano dei poeti/Ballyhoo – Quotidiano di comunicazione. Sempre a Maurizio Nocera si devono anche alcune questioni, forse lacunose, che guardando alla ricostruzione del profilo bibliografico del poeta di Caprarica di Lecce gettano banchi di nebbia su ciò che in quegli anni accadeva nel Salento. In ogni ripubblicazione curata da Nocera, il profilo bibliografico di Verri presenta alcune ambiguità dettate probabilmente da lacune, ricostruzioni grossolane, mancanza di precisione, inadeguata metodologia. Verri, nella sua attività editoriale, fu co-curatore in alcune collane ideate da Dòdaro: Compact Type. Nuova Narrativa (1990), Diapositive. Scritture per gli schermi (1990), Spagine. Scrittura Infinita (1991), Mail Fiction (1991). In ognuna delle ripubblicazioni curate da Nocera, ma anche in molti lavori successivi portati a termine da vari critici, non è mai riportata l’esatta attribuzione delle collane, lasciandole, queste, all’indeterminazione storico-critica che tali ambiguità comportano. Dal capovolgimento che si registra nello scritto di Ennio Bonea, nel 1992, alle note bibliografiche ricostruite da Nocera, il rischio, per i critici che decideranno di occuparsi dell’opera di Verri, di inciampare in conclusioni avventate ed errate attribuzioni appare evidente. Come evidente è il danno storico che ne consegue.

2.2 “Danzare la gioia, danzare il dolore”, forzature folcloriche nella critica di Maurizio Nocera

Questo segmento, dedicato ancora alle interpretazioni critiche di Maurizio Nocera, si apre con la ripresa del titolo di un suo intervento, appunto Danzare la gioia, danzare il dolore, pubblicato il 25 aprile 2011 sul sito dell’Università Popolare Aldo Vallone, Galatina. L’intervento appare evasivo, alludendo e manifestando teorie, che attraverso una attenta analisi dei testi pubblicati sulle riviste del Movimento Arte Genetica, facilmente possono essere confutate, ma ancora una volta si corre il rischio di una inesatta storicizzazione dei fatti.

Scrive Maurizio Nocera nel suo intervento che «Sul finire degli anni ’70, quando ancora non si era pensato e tenuto all’Università salentina, il convegno su “Il ragno del dio che danza”, un movimento artistico leccese, facente capo al pittore e critico d’arte Francesco Saverio Dòdaro, il movimento Ghen, partendo da posizioni psicoanalitiche lacaniane, ebbe una felice intuizione. Andando alla ricerca dell’origine del suono, questi scoprirono che esso fondamentalmente è coniugato in modo inscindibile al movimento, entrambi poi hanno origine nello stesso momento in cui vengono pensati, quindi creati. Gli artisti in questione, che pubblicarono anche un loro giornale in un numero limitatissimo di copie, scoprirono che nel momento in cui un essere vivente è generato, l’esplosione creatrice provoca istantaneamente un suono vitale ed un movimento cinetico, che, sempre, e sulla base delle leggi universalmente conosciute, si effonde in un senso che assume il carattere naturalmente antiorario, proprio così come fa il pianeta Terra girando su stesso, e quindi attorno al sole. Gli artisti leccesi fecero l’esempio del concepimento di un essere umano e constatarono che l’impatto di uno spermatozoo con un ovulo in un utero provoca il suono ghen, corrispondente al battito cardiaco, quando contemporaneamente inizia il movimento ghen, corrispondente alle pulsazioni dell’essere ancora allo stato amebico. Gli artisti in questione pensarono che tutto questo fenomeno altro non era che il momento fondante della vita, pensata come il risultato ideale dell’armonia della mente col corpo dovuta alla musica (suono) e alla danza (movimento). […] Un merito gli artisti leccesi del movimento Ghen lo ebbero, cioè quello di aver fatto l’esempio della creazione di un nuovo essere umano (un bambino o una bambina) e di avere coniugato il suono (la musica) al movimento (la danza)».

Eppure, negli interventi che delineano lo sviluppo teorico del movimento, mai appaiono gli elementi messi in risalto da Nocera. Nel numero di Ghen del giugno 1978, Dòdaro, in un intervento intitolato Link, definisce i legami maternali indagandoli attraverso un trittico di manifestazioni storiche, quali arte, religio e vita sessuale. Partendo da un’analisi comparativa di queste tre manifestazioni individua il seme, attraverso lo sviluppo dialettico e le matrici nodali, per cui secondo lo stesso Dòdaro è il legame, il link, quel senso primario che le accomuna. Il termine Arte, dal latino Àr-tem, dalla radice Ar che nel sanscrito e nell’avestico (zendo) assume i significati di mettere in moto, muoversi verso qualcosa o qualcuno, aderire, attaccare, si connota come manifestazione umana del tenere insieme (da qui l’individuazione, anche, del linguaggio come rifondazione della coppia). Per il termine religio, Dòdaro procede attraverso le analisi di Benveniste, che in avestico trova l’aggettivo sūra – aggettivo della stessa famiglia di Spənta, appellativo usato per le sette divinità che presiedono alla vita materiale e morale dell’uomo – identificato con forte, ma che significa anche gonfiarsi, dal verbo – accrescersi, che implica forza, ma anche prosperità. Un rapporto simile è possibile individuarlo col greco Kueîn (essere incinta, portare nel proprio seno) e Kûros (forza, sovranità).

«Il carattere santo e sacro si definisce così in una nozione di forza esuberante e fecondante, capace di portare alla vita, di far sorgere i prodotti della natura» (Benveniste E., Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. Potere, diritto, religione, Volume II, pp. 422, 423)

Per quanto riguarda le manifestazioni della vita sessuale, nel numero di Ghen del 1979, in un intervento intitolato Codice Yem, scrive Dòdaro: «Il dito in bocca del fanciullo, le ispezioni vaginali ed anali, il piacere nel ricevere lo sperma, la stretta di mano, l’istanza del contatto e del calore in genere, il bacio; tutti aspetti che denotano la ricerca della temperatura e dell’umidità proprie dell’ambiente prenatale che è liquido e non gassoso».

In tutte e tre le manifestazioni, la madre appare come la significazione profonda. Il ritorno ad essa è, non in quanto madre, ma in termini di rifondazione della coppia da considerarsi come rifondazione dell’anthropos, all’interno di un mondo fondato sulla negazione della cosa primigenia, sul residuo di godimento che modula l’esistente.

Inoltre, la lettura di Nocera, considerando Dòdaro come un pittore, rischia di diventare ancor più fuorviante, quando, invece, trattasi di un autore che ha dedicato 4 anni alla pittura e 60 alla ricerca letteraria. Quanto proposto da Nocera ci consegna un quadro storicamente poco chiaro e spesso poco aderente a quanto svolto dai rispettivi autori.

 3. Le declinazioni verriane nella critica di Simone Giorgino

3.1 Il rapporto Dòdaro-Verri. Una mancanza fondamentale

Quanto affermato nelle analisi precedenti si mostra importante anche alla luce di una lettura critica del testo Antonio L. Verri. Il mondo dentro un libro, di Simone Giorgino per Lupo Editore, 2013. Come per le precedenti critiche, nel libro in questione non si attesta mai la paternità delle collane sperimentali che hanno trovato pubblicazione all’interno del sodalizio Dòdaro-Verri. Attestarne la paternità non può e non deve assolutamente passare in secondo piano nell’ottica più ampia di una analisi critica dell’opera verriana, in quanto una corretta ricostruzione, dunque contestualizzazione, si pone come il primo e necessario passo, e dallo sguardo di tale prospettiva poi si ravvisa il dipanarsi dell’opera. Secondo quanto riportato da Giorgino «Nel 1988, come già ricordato, avviene l’adesione di Verri al Movimento Genetico, un movimento d’avanguardia sorto a Lecce nel 1976, che raggruppa, sotto la guida di Francesco Saverio Dòdaro, artisti di diversi settori, i quali riconoscono radici genetiche comuni a ogni forma di manifestazione artistica, da loro intesa come tentativo di una non meglio precisata riunificazione con la madre» (Giorgino S., pp. 60 – 61, 2013).

Antonio Verri formalizza nel 1988 la sua adesione al Movimento Arte Genetica, ma in realtà attinge già da anni alle teorie di Dòdaro, che da Giorgino vengono liquidate in una manciata di righi, senza entrare nel vivo di quelle modificazioni che l’impatto con esse provoca in Verri. Il poeta di Caprarica di Lecce, scriveva nella sua lettera di adesione al movimento, passaggio, fra l’altro, riportato in parte anche da Giorgino, «Caro Saverio, ecco la mia formale adesione al Movimento Genetico: dico formale perché tu sai benissimo da quant’è che ho assorbito (e anche usato: Betissa e Trofei fanno testo) le tue intuizioni genetiche, le tue geniali idee, i tuoi voli, i vastissimi campi che possono essere esplorati dal tam tam armonioso, materno, disarmante, monotono, primordiale, vitale; quanto la poetica del tuo Movimento non dia altro, in definitiva, che l’idea del corpo che racconta, copula, plasma, irrita.. […] Intanto aderisco, dopo ti verrò a trovare perché, lo sai, non ho finito di usarti. Sto chiedendomi per il Declaro, qual è (eccome) il segreto della ripetizione o lo scavo, l’intreccio, la radice delle parole» (Verri A. L., 1989, p. 134).

La lettura dei testi verriani, dalle opere alle lettere, mette bene in luce come il legame fra i due sia di profonda amicizia e stima letteraria, al punto che Verri appare sbalordito davanti a quelle che definisce illuminazioni, ossia gli scavi teorici portati a termine da Dòdaro, ed a questi attinge senza sosta. A pagina 17 del suo testo, Giorgino, affrontando il legame fra Verri e la madre mostra come «Antonio provasse un legame viscerale per la madre, figura centrale della sua produzione letteraria da Il pane sotto la neve fino almeno a La cultura dei Tao».

La Cultura dei Tao è il testo che qui prendo in considerazione come la svolta decisiva verso la maturazione poetica di Verri, ed è il testo che precede La Betissa. Eppure, quanto scritto da Giorgino è smentito dalle stesse parole di Verri, che nella già citata lettera di adesione al Movimento Genetico affermava apertamente di aver fatto ampio uso delle teorie genetiche ne La Betissa e nei Trofei, mostrando il tam tam armonioso e materno in termini di corpo che racconta. E proprio questi connotati assume la scrittura di Verri a partire da La Betissa. La dimensione di un corpo desiderante che sotto i colpi di una spinta primigenia è teso, nella forma della parola – l’umanizzazione del desiderio, dunque linguaggio – ad una continua ispezione e sedimentazione dell’anthropos rivolta ad una trasposizione letteraria dove «finalmente muoversi nell’oggetto del suo desiderio» (Verri A. L., 1990, pp. 30-31). Dall’esperienza di La Betissa in poi la madre appare sempre più radicalizzata e presente, fondante l’intero asse della poetica verriana, ma non più riscontrabile in forma esclusiva nella figura della madre che inculca «i racconti del folclore salentino» (Giorgino S., 2013, p. 17), ma colta nel movimento desiderante della scrittura verriana che in continuazione oscilla fra gli stili e, oltre, vede l’oscillazione continua di questo desiderio entrare-uscire dalla madre in quanto tale che poi appare come madre terra, mare, lago, acqua, e quanti oggetti e visioni si mostrano al poeta nella sua percezione autorale, in un tutto spesso indistinto e senza forma, o quasi, che permette appunto l’estenuante oscillazione della figura della madre in una frammentazione continua di figure diverse. Qui l’autore appare similmente al bambino che vivendo un rapporto simbiotico con la madre risulta indistinto da essa e dal contesto. L’autore è la madre che è madre carnale, oggetto, luogo, sasso, mare, acqua qualsiasi, e via dicendo. L’autore è la madre che è quanto già elencato ed altro ancora, ma ecco che l’autore è poi il suo alter ego e tutti i suoi personaggi, in un rapporto di identificazione con la scrittura fattasi corpo desiderante. La scrittura, mitizzata, si pensi alla lettera di Alessandro, protagonista di La Betissa, che indirizzata alla madre mostra come lo spostamento all’interno del mito di Icaro dalle ali di cera al trabiccolo volante di scrittura, metta in atto un processo di mitizzazione delle parole che in Verri, avendo connotati desideranti, altro non sono che il corpo ad uno stato primigenio, originario, attraversato e parlato dai significanti, in balia del contesto perché indistinto da esso, la scrittura mitizzata è lasciata depositare ed entrare-uscire dal corpo. La scrittura-madre, corpo-madre e corpo-autorale, è colta nella dicotomia leggerezza-pesantezza, laddove nelle ultime opere dell’autore si manifesta sempre più il carattere di pesantezza, dell’impossibilità, del fardello dell’eterno ritorno (gli elementi della poetica vanno e vengono, tornano sempre amplificati).

3.2 Elementi folclorici

Per quanto riguarda gli elementi del folclore salentino bisognerebbe tenere a mente che il contesto in cui Verri muove i primi passi, sia come autore che editore-operatore culturale, è quello del Salento degli anni ’70, dell’avvio alla riscoperta del folclore che assume connotati politici, o meglio: la non assunzione di una valenza politica e di una coscienza civile, sociale, attraverso l’utilizzo del folclore, avrebbe decretato il fallimento stesso della riproposta. In questo contesto si inserisce l’operazione di Verri, alquanto pasoliniana, che nella presa di coscienza politica matura un assetto etico filtrato attraverso la poetica impegnata di Roversi. C’è una luce, quella della storia, manifesta nel sole e che è sofferta, che nella pasoliniana ripresa delle culture antiche coltiva un rapporto diverso coi luoghi, scardinandoli e facendoli mondo. È presente in certa misura un nutrimento poetico che attrae a sé l’opera di Cesare Pavese e l’afflato lorchiano, nella condizione in cui Verri pone a sé ed alla sua ricerca il continuo confrontarsi col mondo per mezzo di tutta una serie di oggetti, luoghi e legami mitici, topoi, poietici, che costituiscono archetipicamente la sostanza del mondo verriano. È proprio il Verri de La Cultura dei Tao a dettare il passo di questa matrice globale, affermando che «i proverbi aprono al mondo». Non è la madre zanzottiana porta d’accesso alla lingua originaria, la lalingua (lalangue), e non è il territorio, dunque il Salento, come correlativo del bosco (fa testo il Galateo in bosco di Zanzotto) inteso come luogo del rimosso, al contrario del luogo-Salento appaiono in Verri soltanto una serie di oggetti, figure, micro-luoghi che sanno connotarsi sul piano poietico in virtù della loro sostanza immaginifica. Lo sguardo di Verri è infatti prospettico e frammentato, rivolto al molteplice più che all’unitario. Ciò che ci restituisce il testo di Giorgino è un autore il cui tratto più originale sarebbe quella matrice locale, incursioni dialettali, «eletta a paradigma, con la direttrice, questa sì determinante, che si fonda, più modestamente, sulla riscoperta del folclore salentino. […] Del concetto verriano di salentinità intesa come recupero e valorizzazione delle proprie radici e come passaporto per un aperto e sistematico confronto con la grande cultura europea» (Giorgino S., 2013, p.25). Eppure l’elemento folclorico non appare, a mio avviso, come radicamento e riscoperta, ma esclusivamente come mezzo, polivalente, per aprire e aprirsi al mondo. Gli inserimenti dialettali infatti spaziano, in un gusto postmoderno per la citazione, il gioco, il recupero e la successiva creazione “altra”, dalle varie declinazioni del dialetto salentino fino ad altri dialetti italiani, siciliano, napoletano, romano ecc. La geografia letteraria di Verri è nazionale e globale, guardando alle altre lingue. Diversamente, nell’analisi di Giorgino, l’autore è colto in uno strabismo che lo porta a guardare alla cultura europea ed al recupero del folclore locale, inteso, questo, nella doppia via del recupero e dell’apertura. Proprio l’elemento del recupero, nei fatti, è a mio parere disinnescato dall’estensione nazionale della geografia dei dialetti che in Verri coesistono, mischiandosi. Questa radice, più che folclorica, appare come storica, dunque politica (le operazioni di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, entrano ed escono in suggestioni dall’opera di Verri, così come l’opera di Stefano D’Arrigo, ed il loro carattere al contempo storico e politico).

3.3 Fra Neoavanguardia e Zanzotto o fra Roversi e Postmodernismo?

L’esplosione della società dei media, il conseguente apporto di una ipercomunicazione, una comunicazione di massa come produzione di una non comunicazione (troppa informazione si risolve nel suo contrario), pongono l’artista davanti ai limiti dell’appiattimento culturale, sociale, una omologazione dei linguaggi e delle esistenze. Da qui anche l’impossibilità della creazione, una finitudine delle possibilità formali dell’opera che nel postmoderno è disarticolata ripescando e rileggendo il passato. Entrano nell’opera di Verri, con piglio spiccatamente postmoderno, il gusto per il gioco e l’elencazione, memore dell’amore giovanile per Gozzano – importante qui considerare la poetica dell’oggetto gozzaniana – ed uno sguardo che a partire da questa ripresa vivificante del passato, postmoderna, tende alle invenzioni del modernismo di Eliot, il correlativo oggettivo. Il modernismo, in altra maniera e sempre nell’ottica postmoderna, entra attraverso la presenza costante di quello che può essere considerato il leitmotiv dell’opera verriana, la matrice letteraria, l’opera di Joyce, del suo Le gesta di Stephen (Il poeta è l’intenso centro vitale del suo tempo, scriverà Joyce – da cui gli intarsi metaletterari che caratterizzano l’intera produzione di Verri), all’Ulisse ed i suoi flussi di coscienza, fino alla prova del Finnegans Wake, il conseguente plurilinguismo, la dissoluzione della trama e l’uso smodato del neologismo (questo filtrato attraverso le esperienze del postmodernismo italiano, Consolo e D’Arrigo). Elementi, questi ultimi, che da Giorgino vengono ricondotti alla Neaovanguardia, piuttosto che alla matrice fondamentale dell’opera di Verri, e la riduzione delle vicende ad una «descrizione di una quotidianità minimale» (Giorgino, 2013, p. 27) non sembra aderire ai romanzi verriani, al cui interno la quotidianità dal punto di partenza del reale appare trasfigurata, sì, «nell’onirico e subliminale» (Ivi) ma piuttosto in soprannumero, ebollizione, ripetizione costante degli elementi, la cui costruzione è sempre in dialogo con gli spazi vuoti, i silenzi, l’intertestualità, gli spazi bianchi, il nulla, lontana dal timore barocco dell’horror vacui e vicina a quella pratica gestuale, alla violenza istintuale di un Pollock che sulla tela vede la costruzione dell’opera nei dialoghi costanti con lo spazio della tela, sulla quale agisce dall’alto verso il basso (come il protagonista della Betissa opera con le parole in una gestualità dall’alto verso il basso, a metà fra il gestualismo statunitense e certe riprese dal sapore DADA) proprio per poterne avere un maggiore controllo spaziale. L’Antonio Verri di Giorgino è un autore in bilico fra Neoavanguardia e Postmoderno con lo sguardo puntato al Galateo in Bosco di Zanzotto.

«Dal confronto con i poeti più illustri della seconda metà del Novecento balzano subito agli occhi le affinità, ad esempio, con il Sanguineti di Laborintus o lo Zanzotto de Il Galateo in bosco; tuttavia risulta anche piuttosto evidente che mentre questi ultimi non si lasciano invischiare nella melassa indifferenziata del significante, né da un “atteggiamento puramente delibativo ed edonistico” – portando sempre alla semantizzazione anche la parola più insignificante o il gioco linguistico –, in Verri, invece, spesso ci si arresta prima, cioè alla fase della constatazione di un deragliamento del senso e dell’incomunicabilità della parola» (Ibidem pp. 113, 114).

Ma partiamo qui dal percorso di Zanzotto, dal processo autorale de La Beltà, proprio di una lingua orale, non scrivibile, strutturata in sillabe allitterative, fino alla prova de Il Galateo in bosco, momenti poetici che evidenziano quanto per l’autore esista una possibilità di memoria nel dire creativo, rintracciabile a partire dall’infanzia, dalla frantumazione del verso in particelle significanti che parlano per balbettii, cinguettii lallazione, tutti elementi, presenti anche nel Galateo, che appaiono lontani dalla struttura poetica di Verri. La lingua, in Zanzotto, è la lacaniana lalangue, appunto derivata da lallation, in riferimento a ciò che è fecondato, ingravidato, effetto di lallazione manifesto nella prima relazione linguistica del bambino con la madre. Lalangue è la lingua materna che noi abitiamo, che non scegliamo e che parla in noi. Non appartiene al sociale, dunque non alla cultura, né al padre, ma è nel corpo e vivifica il soggetto. Istintiva, appare in Zanzotto come un godimento del significante, un momento poetico che volge lo sguardo ad un puro godimento per la lingua in sé, riscontrabile nella frattura o discontinuità che l’autore realizza fra significante e significato. Questa discontinuità lacaniana, alla quale si rifà Zanzotto, è indicata dallo psicoanalista francese col termine motérialisme, indicando il materialismo del significante. Lalangue è la lingua del resto, ossia di ciò che nell’accesso al mondo del simbolico, del sociale, si situa nel rimosso. Il gnessulògo zanzottiano si mostra poeticamente come il luogo del rimosso, il bosco come correlativo del rimosso, del godimento smarrito che il poeta insegue in quella sua riproposizione della lingua madre, ma è anche un luogo di ambivalenze, polisemie, il gnessulògo è anche l’assenza della parola sociale, la stritolazione del linguaggio compiuto, annegato nella frantumazione allitterativa e significante. Elementi minimi, sillabe, si ripetono costantemente frammentando il discorso poetico. Allo stesso modo appaiono lontane da Verri oltre che le frantumazione zanzottiane anche le frantumazioni interne del verso labirintico di Sanguineti. In Verri sopravvivono le coppie di opposizione individuate da Ihab Hassan fra moderno e postmoderno. Risultante semeiotica del linguaggio postmoderno, come contrapposizione ad elementi di ordine e compiutezza, elaborata a partire da esaltazione dell’irrazionale e abbattimento della metafisica (elementi prefigurati nella filosofia nietzscheana), è riscontrabile nell’opera di Verri a partire dall’incompiutezza stessa dei lavori letterari che è dettata dalla frammentazione dell’io e dell’inconscio poetici dell’autore attraverso la decodifica linguistica di tutta una serie di personaggi che tornano a riflettersi di opera in opera, riproponendo l’autore stesso su una serie differente di piani, di specchi in frantumi che continuano a riflettere e riflettersi, e non terminano mai nella chiusa dell’opera, ma che tornando a riproporsi di testo in testo, sanciscono la continuità vitale del tessuto poetico/narrativo, delegittimando la compiutezza dell’oggetto-libro. Dalla forma chiusa che caratterizza il modernismo si passa all’antiforma, aperta, disgiuntiva, del postmodernismo, al sovvertimento dei valori. Una delle opposizioni che assume un ruolo importantissimo nell’opera di Verri è quella che vede opposti il “disegno” al “caso” ed appare visibile nella lettera che Alessandro, protagonista de La Betissa, scrive alla madre. Mentre Joyce lavora sul significante ma è sempre presente un Io a regolarne la mole e il flusso, in Zanzotto il significante stritola il testo, frantumandone l’andamento del verso. L’esperienza verriana è quella che si inscrive in una sonorità che non cerca la lingua della madre, ma lo spostamento verso il femminile è concettualmente poetico, la lingua del poeta è colta in un flusso sonoro strutturato sulle coordinate Joyce-Bene-Dòdaro, dove per Joyce fanno testo l’Ulisse e il Finnegans Wake, Bene, nume tutelare già nella prima prova poetica di Verri, è quell’autore folgorato proprio da Joyce al punto che “è l’estasi sonora ciò che conta”, e Dòdaro è il poeta della ripetizione, l’autore che introduce Verri al suono del linguaggio del battito archetipo poi riproposto poeticamente da Verri in una lingua-flusso, concettualmente radicata al femminile, ascritta alle coordinate non della lalangue ma della lingua culturale, che culturalmente propone la parola in termini sociali di corpo che desidera. Il ruolo di Dòdaro e ciò che comporta l’adesione poetica di Verri ad un linguaggio sonoro che attesta la preminenza del significante sul significato (indicativo il cambio di poetica nel momento in cui aderisce alle teorie genetiche, Cultura dei Tao e Betissa fanno testo), ma questa dimensione, lontana dall’essere totalizzante, è continuamente aperta ad inserimenti metaletterari, e nel momento in cui il testo sembra franare nella non significazione volta a significare (quasi un ossimoro) la pluralità prospettica del mondo, svelano il senso dell’operazione e delle parole, disseminando, fra l’altro, i testi di ispezioni sulle vicende personali del poeta, ben lontane dalla non significazione. Il significante, comunque, domina la pagina nell’andamento sonoro, e qui entra in gioco l’influenza di Dòdaro che già da anni lavorava sulla verbalizzazione dei suoni e degli spazi intertestuali (la verbalizzazione dei primi appare copiosa in Verri). Delle annotazioni o finte note a margine, dei segni e delle grafie che estendono, riprendendo il lavoro di Pound con la punteggiatura e gli ideogrammi o gli inserimenti volti al pervertimento della storia nell’opera di Emilio Villa, la costruzione della parola in Zanzotto, in Verri, neppure l’ombra, così come il verso verriano si mostra lontano dalla frantumazione in balbettii tipica di Zanzotto. Nell’esperienza poetica di Verri sembra invece importante l’andamento rizomatico dell’approccio roversiano, il cammino del poeta bolognese caratterizzato dal gusto verso il collage espressionistico, la discorsività del verso e la parola divaricata e ritmata nello strumento poetico dell’enjambement, la capacità descrittiva, la registrazione degli eventi con inserimenti, lacerti prosastici, e l’elemento Storico, la sua rilevazione, come consapevolezza politica, condizione etica dell’autore, si manifestano nella pratica poetica di Verri, trovando nel Fate fogli di poesia, poeti, il momento più intenso ed esplicativo di questa influenza, e che si inserisce, in un periodo ormai tardo, nel filone del ciclostilato roversiano. Alter ego zanzottiano è il luogo, al tempo stesso nessun linguaggio, in quanto nessun linguaggio socio-culturale, e determinazione dell’esistenza stessa del poeta che affronta la disgregazione delle cose cercando una propria determinazione in ciò che lo precede e anticipa il sociale. Più che disgregazione (delle cose e del linguaggio) in Verri appare una certa dissipazione, assimilabile da un lato alla porosità della terra intesa come porosità del sociale (Benjamin), che permetterebbe il dentro e fuori dei corpi e l’attraversamento, in termini di dissolvenza (ancora Benjamin), dall’altro al viscerale rapporto con gli spazi aperti (da qui i Poeti Selvaggi) dove la scrittura in termini di corpo desiderante disperde tracce, dissipando l’autore che non pone a sé un luogo in quanto limite della propria esistenza (Zanzotto), al contrario avversa il limite, disperdendosi. Il luogo verriano non è mai la das ding, ma una serie di costrutti, elementi minimi e spesso di derivazione naturale, eppure sociali, radicati alla prassi dell’uomo (il vino, il pane) oppure correlativi dell’invasione significante che attraversa l’uomo stesso, e tutti recuperati sempre non in seno al limite ma all’apertura in quanto sostanza poetica. Elementi tipici del surrealismo appaiono in Verri non legati alla terra-carne zanzottiana, ma entrano in gioco con l’adesione del poeta di Caprarica di Lecce al Movimento di Arte Genetica, in quanto già caposaldo da tempo, il Surrealismo, della ricerca poetica di Dòdaro (Dichiarazione onomatopeica, 1979, e Progetto negativo, 1982, anticipano l’opera di Verri, rimarcando ancora una volta una linea di ricerca che porta a Verri direttamente da Dòdaro), al punto in cui nelle prime prove letterarie di Verri (Il Pane sotto la neve e Il fabbricante di armonia) emergono, fin lì, come massimi riferimenti, Joyce e Roversi.

Inoltre il gusto per le elencazioni, per una poetica degli oggetti, da Gozzano a Eliot fino agli inserimenti di Roversi, apre la strada all’idea verriana del Declaro (il nome è una ripresa del Liber Declari dell’abate Angelo Senisio), ovvero il libro che doveva racchiudere il mondo, che qui non ci sembra legato all’idea di vuoto in Bodini «Il debito di Verri nei confronti di Bodini non si limita solo a queste citazioni esteriori, ma riguarda anche alcuni aspetti più profondi della sua poetica: il sogno del declaro, ossia lo sforzo sempre vano di racchiudere il mondo dentro un libro, leit motiv di tutta la sua produzione posteriore, nasce dallo stesso seme da cui germina il barocco bodiniano» (Ibidem p. 33) ossia, afferma Giorgino riprendendo Giannone «un horror vacui, che si cerca di colmare con l’esteriorità, l’ostentazione, l’oltranza decorativa» (Giannone, 2003, p. 14). Qui si ritiene opportuno percorrere un’altra strada, un’altra angolazione, in quanto, come già scritto precedentemente, si ritiene il vuoto, il nulla, il niente, fondamentale alla poetica di Verri, un nodo alla gola che ha sostanza poietica e che torna in due diverse accezioni: un niente che non è innocente, e un niente, un nulla, un vuoto, con cui il poeta è in continuo dialogo e da cui attinge sempre nuova linfa per i suoi versi (da qui il precedente accostamento alla costruzione pittorica di Pollock, amato da Verri, ma anche la pittura di Edoardo De Candia, in cui il segno dialoga intensamente con lo spazio vuoto della tela concorrendo, entrambi, alla costruzione dell’opera). In questa stessa linea, nel solco di un nulla, di un vuoto inteso come matrice poetica, entra la trasposizione letteraria che Verri attua del paradosso del silenzio di John Cage. Diversamente dalla Neoavanguardia, che guarda al linguaggio massmediale opponendovi una oralità disarticolata, nel tentativo di praticare un sabotaggio nella lingua mercificata, Verri nutre la sua dimensione su due direttrici: sul piano editoriale e dell’operatività culturale attacca la mercificazione, sul piano del linguaggio è di continuo attratto da questa esplosione massmediale e di questa, riprendendo lo sguardo dòdariano verso i new media, si mostra attento osservatore, riproponendo flussi di bit, d’informazione, di tecnologie varie all’interno delle sue opere, amalgamando anche riferimenti a questi linguaggi nelle sue opere di poesia verbo-visiva. Verri appare alla costante ricerca del “gergo nuovo”, una tensione inquadrabile nelle parole di uno dei suoi autori di riferimento, Jack Kerouac: «così sto a letto nel buio e vedo e ascolto il gergo dei mondi futuri: muggicchi ilòd chec scgekgik dlud dlud dddd icchiù sgesgesgeccokò che sarà comunque sempre meglio dell’altro cioè il sig? or macmurphy usic da garidino o meno balordo di attrarvsreò lqstrsdaq – velpondendulo! – robetta così che ti viene quando scrivi a macchina; e invece è il gergo, il linguaggio della corrente del fiume dei suoni, parole, buio, che portano al futuro» (Kerouac, 1960, p. 52).

3.4 Poesia verbo-visiva

Elemento di punta delle esperienze verbo-visive nel Salento, Francesco Saverio Dòdaro è da considerarsi, per il riconoscimento critico da un lato, e dall’altro per il riconoscimento che negli anni ha riscontrato fra gli operatori e gli autori internazionali dei linguaggi di ricerca, come uno degli autori fondamentali dei primi 100 anni di storia della poesia verbo-visiva (ad esempio, con le sue opere e le sue collane sperimentali – Mail Fiction, Diapoesitive, Internet Poetry è inserito nell’importantissimo volume “Poesia Totale. 1897-1997: Dal Colpo di Dadi alla Poesia Visuale” curato da Sarenco ed Enrico Mascelloni e che raccoglie le esperienze internazionali più significative). Proprio in riferimento alla collana sperimentale Diapoesitive, ideata da Dòdaro ed edita da Verri, Giorgino scrive che «L’opera di Verri è attraversata da suggestioni extraletterarie che emergono nitidamente in alcuni lavori di sperimentazione sinestetica come le Diapoesitive. Scritture per gli schermi. È il caso, ad esempio, della pittura, disciplina in cui l’autore provò anche a cimentarsi, affascinato com’era dalle opere di artisti salentini come Edoardo De Candia, Ezechiele Leandro, Lucio Conversano e Antonio Massari» (Giorgino, 2013, p. 49). Nell’analisi di queste suggestioni extraletterarie viene meno il fatto che con la collana Diapoesitive, si parla di poesia verbo-visiva, e che tali forme di sperimentazione letteraria, inter- e poi trans-mediale, hanno origine nelle rotture poetiche di Mallarmé e Apollinaire, nelle esperienze di Carlo Belloli e della fiumana di poeti concreti a lui seguiti, e che la pittura è un discorso altro. Tanto che Verri, seppur affascinato dalla pittura di De Candia, praticava in quel periodo poesia verbo-visiva (un altro esempio sono le tavole poi raccolte in Il suono casual, opere verbo-visive ispirate alla figura di John Cage), andando in cerca di scarti tipografici, fra le tipografie leccesi, proprio con Dòdaro, per poi utilizzarli per le loro opere.

 Da Utsanga.it

 

Titoli citati:

Bodini V., Barocco del Sud. Racconti e prose, Galatina, Besa, 2003
Giorgino S., Antonio L. Verri. Il mondo dentro un libro, Copertino, Lupo Editore, 2013
Bonea E., Ma il libro postale non è una novità, in Quotidiano di Lecce, 12-13 aprile 1992
Cazzato S., Nasce in Puglia la “narrativa”, in Notes. Appunti dal Salento, 22 febbraio 1992, Anno III n. 6
Dòdaro F. S., Codice Yem, Lecce, Ghen, 1979
Dòdaro F. S., Link, Lecce, Ghen, giugno 1978
Dòdaro F. S., Mail Ficion. Free Lances, 1991
Kerouac J., I Sotterranei, Milano, Feltrinelli, 1960 [2009]
Nocera M., Danzare la gioia, danzare il dolore, Università Popolare Aldo Vallone, 25 aprile 2011
Verri A., Il naviglio innocente, Maglie, Erreci, 1990
Verri A., Lettera di adesione al Movimento di Arte Genetica, SudPuglia, 1989

 


 

Inaugurazione Biblioteca dell'Associazione "Ucraina Più - Milano APS"

lunedì 21 marzo 2022

In un albero c’è un violino d’amore: i boschi di Alda Merini. Intervento di Pietro Berra

"Tanti partecipanti, anche da Milano e dalla Svizzera, oggi alla passeggiata In un albero c’è un violino d’amore: i boschi di Alda Merini. Con Sentiero dei Sogni abbiamo seguito il filo rosso dell'amore e dell'accoglienza da Brunate fino a Como lungo un tratto della Lake Como Poetry Way, camminando incontro alla primavera e alla giornata mondiale della poesia. Grazie ai poeti - Sabrina Crivelli, Laura Garavaglia che ci ha portato la voce di Dmytro Chystiak da Kiev, Diego Conticello, Claudio Fontana -, al Comune di Brunate e alla sua straordinaria bibliotecaria Maura Selmo, a Dario Bernasconi della Società di muto soccorso di Brunate, agli attori del CUT Insubria - Centro Universitario Teatrale. A Roberto Deangelis, uno e trino (poeta, attore, persino cantante, ma soprattutto testimone e squisito ospite che ci ha aperto l'Eremo di San Donato - Como). E alla famiglia Balzaretti, che ha condiviso con noi il suo "balcone" su Como e un pezzo di mondo. Grazie, Mirna, che ti sei fatta in quattro per tenere assieme tutto e tutti con l'aiuto delle super volontarie del servizio civile" (Pietro Berra)

 


 

domenica 20 marzo 2022

Antonio Verri: la morte dell’oggetto unico by Francesco Aprile

Antonio Leonardo Verri (Caprarica di Lecce, 22 febbraio 1949 – 9 maggio 1993), poeta, romanziere, editore, operatore culturale, giornalista, aderì al Movimento di Arte Genetica fondato nel 1976 da Francesco Saverio Dòdaro e a partire dalla fine degli anni ‘70 si fece ideatore e promotore di riviste letterarie quali “Caffè Greco” (1979-1981), “Pensionante de’ Saraceni” (1982-1986) e “Quotidiano dei Poeti” (1989-1992), quest’ultimo andò ad intersecarsi dal 1991 con “Ballyhoo-Quotidiano di comunicazione”. Dal 1986 al 1993 collaborò con “Sudpuglia” e nel 1990 diresse “On Board”. L’impegno di Verri si collocava a pieno titolo in quelle aree della militanza culturale pugliese che dalle figure dei Fiore, Tommaso e Vittore, aveva avuto modo di articolarsi come prassi politica e letteraria, tentando un intervento attivo sul sociale, attraverso un investimento letterario e giornalistico che non lesinava polemiche, al punto che l’opera del poeta di Caprarica di Lecce è attraversata da invettive che spaziano dalle critiche al mondo editoriale a quelle rivolte all’immobilismo accademico. Curò le attività del Centro Culturale Pensionante de’ Saraceni e la collana “Abitudini. Cartelle d’autore” (1988-1990), contribuì alla collana “I Mascheroni” (1990-1992) per Erreci Edizioni, ed entrò come co-curatore ed editore di una serie di collane ideate da Francesco Saverio Dòdaro – “Spagine. Scrittura Infinita” (1991), “Compact Type. Nuova Narrativa” (1990), “Diapoesitive. Scritture per gli schermi” (1990), “Mail Fiction” (1991) – con le quali Dòdaro rileggeva la forma-libro pervenendo a violazioni estetiche e fruitive. A Cursi (Le), Verri istituì il “Fondo internazionale contemporaneo Pensionante de’ Saraceni”, una biblioteca composta da oltre tremila volumi. Per non smentire la sua vocazione di operatore culturale, organizzò due edizioni di una mostra mercato di poesia a cui diede il nome di “Al banco di Caffè Greco”. Organizzò, inoltre, due mostre: la prima su Joyce e Raymond Queneau, la seconda sul gioco dello Scrap (gioco di scrittura attraverso l’uso di scarti tipografici). Una semiautomatica per manifesti ha dato alla luce le sue prime opere, interamente stampate da sé. Rispettando il suo manifesto poetico, “Fate fogli di poesia, poeti, vendeteli per poche lire”, ha effettuato volantinaggio di poesie. Morì il nove maggio del 1993 in un incidente stradale.

1.
La proposta autorale di Antonio Verri, nel periodo che qui si vuol considerare come suo apprendistato poetico – dal fare rivista sul finire degli anni ‘70 a “Il pane sotto la neve” (1983), fino a “Il fabbricante di armonia” (1985) –, appare colta in un doppio vincolo; se da un lato l’autore non si risparmia dal punto di vista dello scandagliare le radici popolari, dall’altro queste sono ricercate non come espressione di un localismo letterario, al contrario già dalla prima raccolta poetica, “Il pane sotto la neve”, appunto, Verri, lungi dall’esaurire il discorso sul “popolare” al solo Salento, procede in una estenuante ricerca che lo porta ad affrontare idiomi provenienti da tutta Italia. Ritroviamo questo doppio vincolo come caratteristica preponderante della prima parte della produzione letteraria di Verri, il più delle volte esplicitata nella tensione amore-odio che caratterizza il rapporto dell’autore con il territorio d’origine. Si notino i diversi connotati del dualismo verriano dal rapporto amore-odio di marca bodiniana che sfociava nei versi «Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese / così sgradito da doverti amare»; se il poeta de “La luna dei Borboni” viveva afflitto da questa coppia oppositiva, l’amore-odio in Verri si sviluppava su coordinate composite. Verri infatti, lontano dall’esprimersi nei termini bodiniani sopracitati, costruiva un itinerario d’amore che a ben guardare isolava determinati punti di contatto col territorio, formulando una mappa dei suoi tòpoi, mostrando una serie di luoghi e motivi (da Castro a Otranto, da Cardigliano ad elementi altri, quali il vino ecc.) che assurgono a schema reiterabile che l’autore, di fatto, elegge a struttura nelle varie tappe della sua produzione letteraria. In questo senso, il doppio vincolo amore-odio non risulta esteso al Salento nella sua totalità, al contrario l’amore appare radicato in una serie di punti di sutura geo-esistenziali che costituiscono la reiterabilità poetica dei luoghi; difatti, questi, sono scelti per la loro sostanza poetica senza identificarsi con la totalità del territorio. Al contrario, l’odio è articolato nell’attitudine polemica che attraversa l’opera verriana, scagliato contro un territorio colpevole di autoisolamento, opportunismo e clientelismi vari. “Il pane sotto la neve”, aperto da un omaggio ad un nume tutelare della poetica verriana, Carmelo Bene, procede sulle coordinate Bene-Joyce, Lorca-Bodini, senza dimenticare le esperienze di Consolo e D’Arrigo, ma anche Pavese ed uno sguardo già teso verso la Beat Generation di Kerouac e Ginsberg. Il lorchismo italiano, nella fattispecie quello di marca meridionale, tracciato negli anni da Carrieri e Bodini, è in parte eletto a modello da Verri in questo primo frangente della sua opera, salvo poi procedere ad uno scarto, sposando fin dall’esperienza de “Il pane sotto la neve” gli stilemi del postmodernismo, i quali trovano agio nelle sue parti in prosa e nelle successive “Varianti d’autore” de “Il fabbricante di armonia”, dove il gusto per il gioco, le bufferie, il calco, l’elencazione, il neologismo, diventa carattere predominante sancendo un “andare oltre” rispetto alla poetica bodiniana. In una raccomandazione del 1987, poi pubblicata in apertura della riedizione de “Il pane sotto la neve” (Kurumuny 2003), Verri affermava che «fare letteratura, da un bel po’, vuol dire soprattutto corteggiare, avvicinarsi, al romanzo» e allo stesso tempo parlava di un omaggio alle radici contenuto nel libro. Il motivo dell’opera trova nella coppia oppositiva amore-odio ancora elementi di sviluppo. La pratica poetica, se da un lato cerca i genitori, le radici, dall’altro è già proiettata altrove e a testimonianza di ciò è possibile far riferimento all’ampio campionario di termini provenienti dai più disparati dialetti della penisola, i quali, assieme alla ricerca sul folklore salentino, concorrono alla costruzione di neologismi e di una lingua materica, composita, mescidata, costruita su corrosive stratificazioni culturali. La costruzione di un melting pot letterario procede sin dalla prima opera, agendo sulla falsariga di un Joyce omaggiato al punto da far coincidere l’alter ego verriano col personaggio joyciano di “Stefan” (Stephen Dedalus).
La curiosità verso le culture popolari è manifestata in maniera chiara a partire dalla pubblicazione del testo “La cultura dei tao” (1986) in cui l’autore afferma che «i proverbi aprono al mondo». La direzione che il popolare assume nell’opera verriana appare così determinata al raggiungimento di una apertura, di una forzatura dell’orizzonte poetico e conoscitivo tale da rompere gli argini territoriali. In questo periodo Verri ha già conosciuto Dòdaro, ne sono prova la partecipazione di quest’ultimo alle riviste verriane, le quali erano in un primo momento a carattere prettamente locale, dalle tematiche agli autori coinvolti, salvo poi dilatare gli orizzonti a partire dal contatto, dall’amicizia e dalla collaborazione di Verri con Dòdaro. L’incontro Dòdaro-Verri può essere inquadrato nell’ottica dell’influenza del primo sul secondo, seguendo la formula utilizzata da Bufalino per qualificare l’influenza di Poe su Baudelaire; ossia nei termini di un «vampirismo intellettuale» che comporta nel caso di Verri un salto ed una maturazione poetica. Sulle pagine delle riviste verriane l’orizzonte si amplia, vengono ospitati numerosi autori provenienti dall’ampio raggio di collaborazioni dòdariane, da Lamberto Pignotti a Luciano Caruso, da Klaus Groh a Ugo Carrega ecc., e allo stesso tempo è Verri ad aprirsi al mondo, seguendo la formula poi indicata in “La cultura dei tao”, stabilendo una serie di contatti autonomi, che in una parte esigua e non rilevante, dunque non programmatica, aveva avviato già a partire da “Il pane sotto la neve”, ampliandola in maniera considerevole, aderendo, inoltre, alla tessitura propria di quel “Salento europeo” che l’autore ricordava nella nota biografica del suo “I trofei della città di Guisnes” (1988), ovvero quel «Movimento Genetico di F. S. Dòdaro, una delle linee portanti del Salento europeo». Nel 1988 Antonio Verri formalizzava la sua adesione al movimento di Arte Genetica, ma si trattava solo di una tardiva formalizzazione, in quanto l’autore aveva già da tempo iniziato a nutrirsi delle ricerche dòdariane. Nella sua lettera di adesione scriveva: «Caro Saverio, ecco la mia formale adesione al Movimento Genetico: dico formale perché tu sai benissimo da quant’è che ho assorbito (e anche usato: Betissa e Trofei fanno testo) le tue intuizioni genetiche, le tue geniali idee, i tuoi voli, i vastissimi campi che possono essere esplorati dal tam tam armonioso, materno, disarmante, monotono, primordiale, vitale; quanto la poetica del tuo Movimento non dia altro, in definitiva, che l’idea del corpo che racconta, copula, plasma, irrita.. […] Intanto aderisco, dopo ti verrò a trovare perché, lo sai, non ho finito di usarti. Sto chiedendomi per il Declaro, qual è (eccome) il segreto della ripetizione o lo scavo, l’intreccio, la radice delle parole» (Verri, in Sudpuglia, 1989). A partire da “La cultura dei tao” l’opera di Verri è segnata da un radicale e progressivo slittamento verso l’adesione al “femminile” in quanto matrice e orizzonte della poetica, un passaggio espresso in una forma embrionale nel testo del 1986 e definitivamente raggiunto nel 1987 con “La Betissa. Saga composita dell’uomo dei curli e di una grassa signora”. È proprio la “Betissa” a farsi portavoce di quanto poi l’autore affermerà nella lettera di adesione al Movimento Genetico. La scrittura, intesa nei termini di un corpo che racconta è dunque un corpo desiderante che sotto i colpi della parola, la quale veicola il desiderio, è teso ad una continua ispezione e sedimentazione dell’anthropos del quale tenta una trasposizione letteraria dove «finalmente muoversi nell’oggetto del suo desiderio», come riporta Verri a pagina 30 del suo “Il naviglio innocente” (1990). Dall’esperienza di La Betissa in poi la madre appare sempre più radicalizzata e presente, fondante l’intero asse della poetica verriana, ma non più assimilabile alla figura della madre biologica, al contrario è colta nel movimento desiderante della scrittura che in continuazione vede l’oscillazione di questo desiderio entrare-uscire dalla madre in quanto tale che poi appare come madre terra, mare, acqua, e quanti oggetti e visioni si mostrano al poeta nella sua percezione autorale, in un tutto spesso indistinto e senza forma, o quasi, che permette appunto l’estenuante oscillazione della figura della madre in una frammentazione continua di figure diverse. In questo senso subisce un duro contraccolpo anche la figura dell’autore che smagrisce nel testo, diviene flebile. Attraverso il contatto con l’opera dòdariana è l’adesione alle teorie di matrice postfreudiana a delegittimare il soggetto autorale. L’Io è decentrato, la fissazione identitaria appare incline allo smarrimento, si perde al punto che l’autore è dislocato, è altro da sé e sconfina in una costellazione di personaggi e luoghi, laddove la terra appare “porosa”, recuperando l’amore verriano per l’opera di Walter Benjamin, ed i confini fra corpo e spazio si fanno sempre più labili. Da questo punto di vista, un tassello importante è dato, proprio in “La Betissa”, dalla vicinanza di Verri all’opera di Samuel Beckett, in particolare il testo verriano ricorda nella struttura e in alcune concezioni dello spazio l’opera “Non io” dell’autore irlandese dove è possibile esperire il corpo in quanto spazio; infatti sulla scena beckettiana appare una bocca e solo quella è illuminata, il resto del corpo scompare nello spazio buio del palco. Scrive Beckett: «Bocca: fuori. / dentro a questo mondo. / questo mondo. / piccola minuscola cosa. / prima del tempo. / in questo dio porc- / cosa?», e sembra fargli eco Verri: «Uno, punto sull’uno! / Nulla lasciano di verde, nulla d’intatto / Due, punto sul due! / Nella bocca maligna innestano una baionetta, e alla luna che si vela offrono il dorso». Quella di Verri, da “La Betissa” in poi diventa così una lingua sonora, melo-logica, improntata alla preponderanza sonora del significante, ma senza apparire stritolata da questo in un marasma primordiale come possiamo ritrovare in Zanzotto, via Emilio Villa, al contrario quella di Verri permane come lingua sociale, culturale. A legittimare l’ipotesi di una lingua-suono è proprio Verri che a pagina 38 della Betissa riporta «Mi accorgo solo ora che dòdaro ha ragione, che poesia è ripetizione», facendo un chiaro riferimento alla teoria genetica elaborata da Dòdaro e al conseguente battito materno come matrice dei linguaggi, dunque suono e ripetizione. La scrittura appare mitizzata, si pensi alla lettera di Alessandro, protagonista di La Betissa, che indirizzata alla madre mostra come lo spostamento all’interno del mito di Icaro dalle ali di cera al trabiccolo volante di scrittura, metta in atto un processo di mitizzazione delle parole che in Verri, avendo connotati desideranti, altro non sono che il corpo attraversato e parlato dai significanti, in balia del contesto perché indistinto da esso; la scrittura mitizzata è lasciata depositare ed entrare-uscire dal corpo. La scrittura-madre, corpo-madre e corpo-autorale, è colta nella dicotomia leggerezza-pesantezza, laddove nelle ultime opere dell’autore si manifesta sempre più il carattere di pesantezza, dell’impossibilità, del fardello dell’eterno ritorno. In questo senso gli elementi della poetica vanno e vengono, tornano sempre amplificati e i tòpoi verriani si ripetono in quanto struttura poetica e narrativa, di volta in volta attraversati dalle diverse suggestioni del momento.

2.

La reiterazione dei tòpoi letterari in Antonio Verri, inquadrabili nei termini di struttura poetico-narrativa, contribuisce a modellare l’opera sui piani del processo. Il tema dell’incompiuto, del non finito, anima e attraversa la scrittura verriana. In questo senso, dalla prima prova poetica, “Il pane sotto la neve” (1983), al postumo “Bucherer l’orologiaio” (1995) il cerchio si chiude solo all’apparenza: sta di fatto che l’opera permane come incompiuta. Il progetto del “Declaro”, il libro, bullonato e infinito, che doveva racchiudere il mondo – ossia un agglomerato, un brogliaccio di documenti, fogli, scritti, nomi ecc. – si mostra, in realtà, solo come una parte di quel tutto che è il “Declaro” stesso e che va oltre l’idea del grande libro bullonato. La messa in opera del corpus verriano evidenzia la reiterazione ciclica dei motivi, degli elementi, nelle opere; di libro in libro ogni elemento torna, amplificato e variato. Guisnes, la metropoli de “I Trofei della città di Guisnes” (1988), costruita sulla trasfigurazione letteraria del borgo di Cardigliano (Le), appare come la città dove tutto è parola. In questo senso Verri, che dedica il libro, fra gli altri, “al battito creatore di F. S. Dòdaro”, installa la scrittura all’interno dei concetti genetici mutuati dall’opera di Dòdaro (percorso già avviato con “La cultura dei Tao”, 1986, e “La Betissa”, 1987), attraverso i quali entra in contatto con le teorie di Lacan e indirizza il suo sguardo ai media. La metropoli dove tutto è parola appare afflitta dallo statuto ontologico del linguaggio che tutto avvolge e in sé accoglie. La scrittura diventa parabola vitale, amplificandosi di testo in testo, in un processo che accresce la parola e traccia la parabola vitale del poeta attraverso la rilevazione degli umori, delle stanchezze, degli stordimenti. Il destino del narratore de “I Trofei della città di Guisnes” appare segnato fin dal suo nome: Guardone. Il narratore verriano, che è l’autore e una miriade di personaggi, è una pluralità di “altri” che parlano attraverso di lui che si osserva nel mentre è parlato dai significanti. Nel romanzo “Ballyhoo Ballyhoo!” pubblicato nella collana “Compact Type. Romanzi in tre cartelle” – ideata da Dòdaro e edita da Verri per le sue Edizioni C. C. Pensionante de’ Saraceni nel 1990, il “fantasma di Lacan” è rilevato da Giovanni Invitto, in un articolo apparso il 23 febbraio 1990 sul Quotidiano di Lecce, che scrive: «Ritorna il fantasma di Lacan, di chi ci avverte del contrasto tra l’Io che parla e l’Io che è parlato […]. C’è l’Altro che parla noi, siamo megafoni dell’Altro. […] Questa decifrazione è, in Verri, nausea ma anche ritmo, “gioco per il piacere del gioco” e autoconoscenza, ma soprattutto autoproduzione: “Ogni sera ero tutti gli oggetti che riuscivo a proiettare”». La dimensione ritmico-psicoanalitica, mutuata da Verri dalle ricerche di area dòdariana, sposta il raggio d’azione della parola sulla condizione plurima del soggetto privo di centro che, nel suo indebolirsi, instaura un rapporto di sconfinamento con le superfici degli oggetti, recuperando il dato esperienziale del corpo husserliano, la dimensione fenomenologica della coscienza che è sempre “coscienza di”, guardando agli oggetti in termini di superfici fluide e malleabili; passaggio, quest’ultimo, che si registra in maniera consistente nel successivo “Il Naviglio innocente” attraverso la metafora della grande nave “numerosa e mnemonica. Immensa forma esclusa” che, come un grande motore di ricerca, tutto contiene e stratifica linguisticamente in elenchi, accumuli ecc. al punto che a pagina 25 del “Naviglio” si legge: «Una sofisticatissima rete integrava, in un amalgama incosciente, dati e suoni e immagini; l’opera continuamente si nutriva […]. L’opera si rinnovava». Lo scavo verriano è quello di una autoesplorazione che culmina, dalla “Betissa” in poi, in una reiterazione ossessiva e accrescitiva degli elementi negativi. Il soggetto-autore, spossessato, in balia delle parole, dei significanti, evidenzia l’impossibilità del racchiudere il mondo e le sue strutture nelle parole. Il sogno mallarmeano del mondo in un libro è trasposto nei termini di una scrittura-processo: continuo divenire. Il carattere incompiuto è l’atto con il quale l’autore trattiene nelle sue pagine il mondo in balia di una molteplicità estrema. La presa di coscienza de “La cultura dei Tao” dei “proverbi che aprono al mondo” evidenzia, a questo punto, il tassello di partenza rappresentato da quei tòpoi popolari, luoghi e motivi culturali, che riecheggiano nell’opera in virtù della loro sostanza poetica e che in questo aprire al mondo perdono il carattere dell’individuazione localistica, mutuando, dall’esperienza joyciana, l’universalità che l’Irlanda assumeva nell’autore di “Ulisse” e “Finnegans Wake”. Di fatto, la scrittura de “I trofei della città di Guisnes” (1988), installa nel borgo salentino di Cardigliano l’immaginario della metropoli con i suoi eccessi mediali, di linguaggio, i suoi surplus di comunicazione che si riflettono nelle modalità di un brusio linguistico, narrativo, costante e volto ad esprimere l’impossibilità del silenzio elaborata da John Cage. In una nota riguardante “Il Naviglio innocente” (1990), apparsa sul numero di marzo 1998 di Apulia, notava Gino Pisanò come «Verri risillaba il sentimento dell’esclusione in questo manifesto della sua poetica affidato […] a un linguaggio medianico che rivela e trascrive le pulsioni oscure dell’Es, le visioni allucinate, la follia, le ossessioni, la Vorstellung del mondo che solo il deragliamento dei sensi produce». Il tentativo del Guardone-Narratore – ossia di colui che è parlato e si osserva, nel suo essere altro da sé, nell’essere parlato – è quello di chi vuol tentare l’impossibile: essere nel linguaggio, essere linguaggio ed al di fuori di sé per osservarsi; ossia un linguaggio che riflette sul linguaggio, ma dal di fuori, condizione, questa, che esprimerebbe l’impossibilità di tale struttura e che è mostrata dall’opera di Wittgenstein, quel bloccarsi davanti ad un indicibile che per il filosofo austriaco era un luogo del “mistico”. Questo luogo, per Verri, diventa motivo dell’esistenza poetica, letteraria, diventa, nella scrittura, quel luogo dell’incompiuto che l’autore cerca di descrivere attraverso la messa in opera di stati alterati di coscienza, rilevati da Pisanò nei termini di un “deragliamento dei sensi”, ma che strizzano l’occhio a stati di trance poetica. Sempre nel “Naviglio innocente” scriveva Verri: «Ero sempre in tutto ma ero sempre più lontano dal mio corpo…in realtà, ecco, quanto più il mio romanzo da un soldo cresceva tanto più io perdevo in carnalità, quanto più il Declaro prendeva corpo tanto più il mio corpo si sfaldava». Quello al quale perviene l’autore è un rapporto alterato col proprio corpo e col mondo, riflettendo sul linguaggio in un tentativo estremo di ossessione e visione allucinata. Il mondo come sostanza linguistica, mediale, appare come una «nave delle parole» il cui corpo «brulicava di video, certamente in essa viveva una unità di memorie, un attrezzatissimo archivio, un vasto bosco di impulsi. […] Aveva cominciato un giorno di tanto tempo fa, dopo aver scoperto d’essere stato nel suo corpo attaccato da vari alfabeti, da forme navicolari, allungate, da forme anche sfumate, incerte. Era l’inizio. Aveva subito decretato la morte dell’oggetto unico, della singolarità. Gli era apparsa una grande nave» (Verri, Il Naviglio innocente, 1990).
Questa rilevazione di un amalgama di elementi, di informazioni, di oggetti che nel surplus di superfici malleabili sconfinano dall’uno all’altro, perdendo il carattere di unicità, avanzando e proliferando nella promiscuità, si riflette nella parallela produzione verriana di poesia visiva. L’autore entra ancora una volta in contatto con un campo di sperimentazione a lui, in una prima fase, estraneo, e lo fa attraverso le ricerche di Francesco S. Dòdaro, già affermato sperimentatore verbo-visivo quando Verri, al suo fianco, si avventura fra le tipografie leccesi alla ricerca di scarti tipografici. È proprio il motivo dello scarto a diventare tema centrale delle esperienze maturate da Verri in area verbo-visiva. Lo scarto, lungi dal presentarsi come resto, residuo, si modula sulla superficie dell’opera a partire dall’accostamento di elementi differenti, i quali si attivano nella costruzione di uno scenario plurale: oggetti, frammenti di lingue diverse, slogan pubblicitari, corpi umani, materiche espressioni gestuali del colore, grafismo, convivono nell’opera alternando accumuli e momenti riflessivi in un unicum che vede la coabitazione di pieni e vuoti. Ciò permette di attivare nell’opera verbo-visiva il già collaudato meccanismo letterario dell’autore che vede il continuo oscillare del linguaggio poetico-narrativo fra surplus di informazione, accumuli, dunque pieni, e vuoti improvvisi che tentano e tastano un silenzio irraggiungibile, ma che nei momenti pausativi del testo permette l’autoesplorazione autorale. La sinestesia semantica di marca verbo-visiva applicata dall’autore scopre, dunque, l’intricato gioco fra pieno e vuoto, fra senso e nulla (quel nulla che per Verri non è innocente) che si produce in un sovrasenso ludico e sonoro. Le tavole dedicate da Verri a John Cage, raccolte dopo la morte dell’autore da Cosimo e Salvatore Colazzo nel volume “Il suono casual” nel 1994 per le edizioni Madona Oriente, ma in parte già pubblicate da Verri in “E per cuore una grossa vocale” (pubblicato all’interno della collana “Diapoesitive. Scritture per gli schermi” fondata e ideata da Dòdaro, edita da Verri per le sue edizioni Pensionante de’ Saraceni nel 1990), si fanno espressione di questa dicotomia fra pieno e vuoto. Lacerti di giornali, alfabeti improvvisi, grafismi marginali, parti di libri e riviste, fotografie di uomini e donne ritagliate, animano le composizioni dell’autore che stratifica questi elementi, opera per sovrapposizioni e tagli dei materiali che vanno a collocarsi sulla pagina in posizione centrale o laterale; tuttavia, in entrambi i casi, è la sensazione di marginalità, di chiacchiericcio, di quel “si dice” dell’inautentico heideggeriano a stratificarsi sulla pagina. Il vuoto dello spazio bianco attorno, al contrario si erge dal nulla che, per contrasto, non è più il bianco, ma l’annullarsi dei materiali logo-iconici, mostrandosi, il bianco, come nuovo luogo di parola. Questa condizione, oltre ad evidenziare i rapporti che la ricerca verriana intrattiene con l’opera di John Cage, mostra quelle influenze dòdariane che Verri aveva già da tempo assorbito: quel vuoto come luogo di creazione è la mancanza a essere lacaniana tanto studiata, assorbita e rielaborata da Francesco S. Dòdaro sin dagli anni ‘70.
Nel 1990 Verri cura il volume “Le carte del Saraceno” al cui interno raccoglie una scelta di operatori estetici salentini. Fra i materiali raccolti compaiono una serie di opere verbo-visive dello stesso Verri; si tratta di cinque tavole intitolate “Scrittura”, con apposita numerazione, datate al 1989. Verri presenta una serie di collage, mixed media prodotti attraverso l’utilizzo di materiali eterocliti: ritagli di giornale, scarti tipografici, pittura gestuale. Su tutti, fanno capolino i “Dis” dòdariani e le foto di John Cage a significare una continuità decisa, sicura, sui percorsi di commistione avviati da Verri fra la teoria genetica di Dòdaro e le esperienze di Cage, già evidenti nella scrittura de “I trofei della città di Guisnes”. L’accumulo forsennato dei materiali, qui, solo all’apparenza presenta una forte virata verso il pieno con esclusione del vuoto, del nulla; la forte stratificazione di lacerti di comunicazioni alfabetiche, giornali, riviste, libri, slogan, e poi fotografie, è interrotta non dal bianco della pagina, ma da decisi inserti materici e gestuali di colore i quali, all’interno del surplus di informazione, frammentandolo, presentano il vuoto di un corpo come punto nullo che risponde e cerca l’altro da sé che deve necessariamente essere altro dal surplus invasivo di area mediale.

da Utsanga.it

 


 

sabato 19 marzo 2022

UN GIORNO PER LA POESIA PENSANDO A TOMA E VERRI di Antonio ERRICO da Nuovo Quotidiano di Puglia, 21 marzo 2017

Mancavano quattro giorni a primavera. Il cielo era violaceo, e nevicava. Una neve così, di marzo, non si ricordava. Nell’ospedale di Gagliano, giù giù, a Finibusterrae, moriva Salvatore Toma, a trentasei anni. Ne sono passati trenta ormai ed è  marzo un’altra volta e arriva un’altra volta primavera.

Salvatore Toma è  un grande poeta. Non lo dico perché lo sosteneva lui, un po’ con ironia e un poco senza, facendosi stampare gli adesivi con la scritta a Great Poet che poi attaccava alle porte delle case e sui vetri delle automobili che a suo giudizio erano borghesi. Non lo dico perché  siamo stati amici. Lo dico perché è un grande poeta.

Il grande poeta è uno che ci crede. Credere significa anteporre il pensare e l’essere poeticamente a qualsiasi altra cosa. Anche alla vita. Totò Toma antepose: senza nessuna riserva, nessuna cura di sé, senza pudore. La poesia per lui era bere solitario, un gioco di dadi, un azzardo, era conoscere cose orrende, senza fondo, meravigliose. Era la consapevolezza che poeti si nasce, ma a volte non si finisce. La  sua poesia è stata un giocare sincero: “Hai giocato sincero/ perciò ci sei riuscito/ come quando mio fratello dice/ lo sapevo perché me lo sentivo!/( e bocciava tranquillamente/ il pallino)”.

Forse è tutta qui, alla fine del conto, la poesia. E’ tutta in un bocciare col cuore di panna e una mano di roccia il pallino del senso del vivere.

Ci ha creduto. Estremamente. Fino in fondo. Fino all’ultimo respiro. Fino all’ultima goccia di flebo che gli passò nelle vene in quel marzo nevoso, lì, giù giù, a Finibusterrae.

Torna primavera un’altra volta e un’altra volta torna la giornata della poesia.

Se fosse vivo Totò Toma, sentendo che si dedica una giornata alla poesia, sghignazzerebbe. Probabilmente masticherebbe turpiloqui. Se fosse vivo Antonio Verri, riderebbe fino a farsi venire l’attacco di tosse. Penserebbero che alla  poesia non si può dedicare una giornata, che le si deve dedicare tutta la vita e tutta la morte.

Erano esagerati, certamente. Per loro la poesia era l’assoluto. Erano convinti che se non si è disposti a questa assoluta esagerazione, si deve andare a fare un’altra cosa, qualsiasi altra cosa, anche perché qualsiasi altra cosa è certamente redditizia mentre con la poesia si rimette sempre, tutto.

Loro sapevano che la  poesia chiede molto, costa troppo, pretende in modo sproporzionato e non restituisce mai niente di quello che pretende e che si prende. “Sì, qualche volta l’ebbrezza/ d’esser vicini a qualcosa/ ma in che rari momenti/ e a che prezzo/ d’insofferenze, di rotture/ d’ogni più delicata trama d’affetti”, aveva detto uno dei  padri che hanno avuto e che rispondeva al nome di Vittorio Bodini.

Spesso ci si chiede a che serve la poesia, oppure se ancora serva in un tempo di tracotanza, di superfluità, di mitologie sgretolate, di dei seppelliti, di utopie svaporate, di tecnologie tracotanti, in un tempo arrogante, borioso, indifferente, sotto l’impero dei mercati, nel contrasto vergognoso di opulenze e di miserie. Ma forse è proprio in un tempo che si mostra con una fisonomia deformata che serve la poesia, che serve una parola autentica e profonda, lontana da qualsiasi convenzionalismo, opportunismo, manierismo, artificio, accondiscendenza, autoreferenzialità, ambizione.

La poesia (quella vera, perché esiste anche la poesia falsa, l’esercizio senza alcun significato)  è sempre stata un’esperienza di liberazione e di libertà. E’ questo che deve indispensabilmente continuare ad essere, conformandosi ai volti innumerevoli dell’Altro, ascoltandone le voci e i respiri, urlando contro le ingiustizie, le sofferenze, i qualunquismi, contro ogni sopruso, contro ogni ipocrita silenzio.

Deve indispensabilmente continuare ad essere poesia onesta. Lo diceva Umberto Saba in una prosa, agli inizi del secolo passato, nel 1911: ai poeti non resta altro da fare che la poesia onesta.

Allora ci si potrebbe chiedere se esista una poesia  disonesta. Certo che esiste. E’ quella di corte e di cortile, quella che si parla addosso, che lascia qualcuno esattamente come lo ha trovato, quella che non provoca il pensiero, l’indignazione, la rabbia, che non scuote la sonnolenza, non intima l’allerta, che non spaventa chi con essa ha una relazione, prima di ogni altro colui che la pensa, nello stesso istante in cui la sta pensando.

Così ritorno a Salvatore Toma; scriveva: un grande poeta si riconosce  soprattutto dalla paura che si fa.

Ma un grande poeta si riconosce anche dalla capacità di stare per la strada.

Così ritorno ad Antonio Verri, alla sua militanza entusiasta e innocente. Faceva fogli di poesia che vendeva a cento lire per le strade di Lecce. Si ostinava a pensare che la poesia dovesse stare tra la gente, che dovesse sprofondare nella storia per poi riemergere e attraversare il presente, ogni giorno che chiariva e che scuriva. Pensava che la poesia potesse cambiare le cose che dovevano essere cambiate attraverso la bellezza e lo stupore, e tanti gli dicevano che era un illuso, e lui rispondeva provateci  un po’ a vivere senza un’illusione per vedere l’effetto che fa.

Sì, lo so bene che se nel luogo dove sono Toma e Verri  dovessero venire a sapere che li abbiamo ricordati in occasione della giornata della poesia, uno ci direbbe parole che qui non si possono riferire e l’altro riderebbe fino alla tosse, ma sia la poesia che questa terra il ricordo glielo devono, costantemente. Per la semplicissima ragione che alla poesia e a questa terra, uno e l’altro hanno dedicato tutti i giorni  avuti in comodato d’uso.

 


 

venerdì 18 marzo 2022

Bonea, Verri e gli amici di Verri di Gigi Montonato

Concepito nel 2003, per celebrare il decimo anniversario della morte di Antonio Verri, l’opuscolo di Ennio Bonea, “Antonio Verri, l’uomo-rivista”, vide la luce nella mia collana “I quaderni del Brogliaccio”, al n. 2 – Marzo 2004. Ignoro se Bonea (nella foto) avesse tentato prima di pubblicarlo altrove, senza riuscirvi. Lo propose a me ed io glielo pubblicai. Il titolo fu suo, peraltro ripreso da Toni Maraini (sorella di Dacia), che così aveva definito Verri.
Ho letto delle cose di Verri e su Verri post eius mortem, ma mai mi è capitato d’imbattermi in una citazione di quell’opuscolo. Dal che ho dedotto che quel lavoro non piacque agli amici e agli estimatori di Verri.
Le ragioni probabilmente si perdono nel groviglio di rapporti obliqui nel mondo degli intellettuali salentini. Bonea aveva i suoi amici e i suoi devoti, ma aveva anche i suoi detrattori. Come tutti, del resto. Antipatie e simpatie riemersero, ancora una volta, qualche anno fa nel corso di una celebrazione alla Biblioteca Caracciolo a Lecce da parte di Carlo Alberto Augieri, quando Valli rivendicò la superiorità della scuola filologica di Marti contrapponendola a quella dalla quale era disceso Bonea. Augieri e Giancarlo Vallone ne presero le difese.
Personalmente ho conosciuto Antonio Verri una sera di non ricordo bene né giorno né mese del 1985 a Galatone, dove, promotore Vittorio Zacchino, fu presentato il libro di Verri “Il fabbricante di armonia, Antonio Galateo”. Prima non ci si era mai incontrati, ma lui diede ad intendere che mi conosceva, chiamandomi per nome, e mi salutò con tanto calore e tanta cordialità da farmelo percepire come una gran bella affabile persona.

Ma torniamo al Verri di Bonea. Sono trascorsi ormai quasi dieci anni da quell’opuscolo, venti dalla morte di Verri, maggio 1993. L’ho ripreso in mano e me lo sono riletto. I contenuti – una sorta di regesto delle sei riviste fondate da Verri – sono preceduti da un prologo, in cui Bonea parla dell’irregolarità del personaggio, che lui aveva avuto allievo all’Università di Lecce.
«Chi scrive – ricorda Bonea – lo ha avuto studente universitario ed ha, forse, la responsabilità di avergli fatto abbandonare l’università e a partire emigrante in Svizzera. Aveva una particolare concezione della letteratura, che nulla aveva di organico. All’esame che egli sostenne di Storia della letteratura moderna e contemporanea, ignorava del tutto il programma svolto per le lezioni.[…]. Non si laureò mai».
Da docente, quale sono stato per quarant’anni, non posso non essere d’accordo con Bonea. La scuola è fatta di programmi, di contenuti da studiare e dimostrare di conoscere, di prove scritte e orali, un universo di regole, di scadenze ineludibili e indifferibili. Chi, per sua natura, è fuori da quell’ordine a scuola vive le pene dell’inferno. Verri, ad un certo punto, volle farla finita; lasciò l’Università e se ne andò a conoscere il mondo in ogni altra sua dimensione che non fosse quella degli odiati piani scolastici. Finì in Svizzera, a lavorare come tanti altri emigranti salentini.

Una più o meno simile esperienza la visse Salvatore Toma al Liceo “Capece” di Maglie, dove il prof. Claudio Micolano – severo professore di Italiano, Latino e Greco – non poteva tollerare nella scrittura dei temi la forma scorretta dello studente-poeta. Si dice: ma perché la scuola non comprende simili soggetti? Per la natura stessa della scuola, che è fatta – come si diceva – di regole. Gli sregolati o irregolari, che dir si voglia, per quanto geniali, sono incompatibili.
Bonea, pur avendo per la poesia e la narrativa postmoderna, in cui Verri scrittore sarebbe stato inserito dai critici, nella sua funzione di docente non poteva non valutare Verri se non per le conoscenze di un programma.
Forse Bonea, parlandone qualche anno dopo per ben altra ragione, sarebbe potuto entrare subito in medias res senza sottolineare la di lui pregressa esperienza negativa. Anche perché sul Verri fondatore e direttore di riviste c’era già tanto da dire.
Il fatto va visto e spiegato in un contesto diverso. Verri – ma non è il solo nel panorama salentino e meridionale – ha espresso con le sue esperienze editoriali e i suoi scritti, a prescindere dal valore – un aspetto di tipo classista degli intellettuali-scrittori. Egli aggiunse alle dialettiche antinomie poveri-ricchi e proletari-borghesi, quella di intellettuali privi di mezzi e intellettuali con abbondanza di mezzi, rivendicando la partecipazione dei primi per rompere un dominio di “classe”, altrimenti appannaggio esclusivo dei secondi.
Calzante o meno questo schema, di chiara derivazione marxista, sta di fatto che è riscontrabile in gran parte del Salento e forse di tutto il Meridione a partire, in crescendo, dalla metà del Novecento. Si tratta di un fenomeno diffuso da analizzare con gli strumenti propri della sociologia politica. E’ un aspetto importante della trasformazione antropologica che ha caratterizzato e travagliato l’esistenza per secoli delle classi povere, che con la crescente alfabetizzazione sono passate dalle forme orali a quelle scritte della loro comunicazione, fino alle opere letterarie vere e proprie.  Non c’è paese del Salento in cui non esista un Salvatore Toma o un Antonio Verri, forse non sempre alla stessa altezza, ma sempre con lo stesso intento di imporsi in un mondo dal quale spesso si viene esclusi o respinti. La grammatica, la sintassi, la consecutio, i contenuti regolari, a cui la scuola, ovvero la “classe dominante”, si appella per giustificare l’esclusione, sono per questi poeti e scrittori le barriere architettoniche che impediscono l’accesso ad un portatore di handicap. Ma essi, le barriere formali dell’espressione, le possono violare e le violano. Il diritto di esprimersi e di far sapere agli altri i loro pensieri, le loro idee, le loro forme di comunicazione ha il sopravvento su tutto.
Perché io che non ho i mezzi non devo esprimermi, farmi conoscere e magari valgo anche più di te che hai i mezzi e tutto quello che serve per avere il successo? Ecco la domanda che i vari Verri si pongono. E Antonio Verri organizzava riviste per creare spazi e metterli a disposizione di quanti volessero esprimersi, a prescindere dalle regole e qualche volta perfino a loro dispetto.
Probabilmente Bonea, scegliendo il Verri “uomo-rivista”, volle ribadire la bocciatura dell’ ”uomo-scrittore”. E questo agli amici di Antonio non è mai andato giù.

da Spagine - Periodico del Fondo Verri  

 


 

giovedì 17 marzo 2022

Verri in “Con gli occhi al cielo aspetto la neve” di Rossano Astremo. Intervento di Marcello Buttazzo

In questo tempo ipertecnologico, abbiamo più che mai necessità di riscoprire il cartaceo, i giornali, i libri, il profumo della poesia d’inchiostro. La fatica e il sudore, che si sostanziano di parole, di chi scrive come possibile e aurorale mestiere di vivere. Dovremmo acquistare più quotidiani, più riviste, più libri, alfine di alimentare fittamente la fiammella della conoscenza. La cultura è l’adattamento da nutrire passo dopo passo, giorno dopo giorno, con pazienza, con alacrità, con operosità. Amo frequentare l’edicola del mio paese e la Libreria Palmieri di Lecce. A Lecce, presso la Libreria Palmieri, non si va semplicemente ad acquistare un libro, ma a celebrare un incontro, un rendez-vous con cari amici. La signora Anna Palmieri, intenta alla lettura, nella sua postazione poetico- letteraria. E poi ci sono Luigi e Daniela. Ieri mattina, sono andato a ritirare un volume, che avevo prenotato giorni fa. “Con gli occhi al cielo aspetto la neve” (Manni Editori, 2013) di Rossano Astremo, uno scritto sulla vita e sulle opere di Antonio Verri. Un po’ d’anni fa, leggevo su “Il Nuovo Quotidiano di Puglia” le recensioni e le incursioni letterarie di Rossano Astremo, che oggi vive a Roma, ed è, tra le altre cose, un apprezzato docente e scrittore. E qui ritorno sul concetto di adattamento culturale, che da un punto di vista conoscitivo è qualcosa di più ampio e di superiore a quello genetico e fisiologico. Così da poter asserire che la vera evoluzione ormai non sia tanto quella biologica (studiata da Charles Darwin e da altri naturalisti), che di fatto s’è pressoché arrestata, ma quella culturale. In un tempo veloce che brucia e consuma tutto, abbiamo bisogno di studiare, di leggere, di approfondire. E devo dire che “Con gli occhi al cielo aspetto la neve” di Rossano Astremo è un dolce viaggio nel mondo, nell’entusiasmo, nella militanza, nel candore di Antonio Verri, un poeta, un intellettuale, che ha lasciato un segno significativo nella storia della letteratura contemporanea.

su Spagine - Periodico del Fondo Verri 

 


 

 

 

martedì 15 marzo 2022

Il Sant’Oronzo del 1981 in una cronaca di Antonio L. Verri

Fernando Bevilacqua propone via mail a Mauro Marino del Fondo Verri questa lettura…

Ci sembra proprio il caso di pubblicarla e di divulgarla

QUOTIDIANO DI LECCE 26 AGOSTO 1981
L’altra faccia della festa. La tre giorni di S.Oronzo
di ANTONIO L. VERRI

Tutto sotto il segno dello spettacolare.

E’ questa festa dei Tre Santi, puntuale da trecent’anni e più, sembra davvero
una occasione speciale, molto provinciale, narcisistica e devotamente beota, per celebrare questo fine agosto salentino, meglio leccese, che il cattivo tempo ed un cielo non molto amico rendono ancora di più fosco e poco rassicurante. Pare che tutto sia da apportare allo sbarco, una bella mattina d’agosto, di Giusto ad Otranto, o a quel morbo così tanto manzioniano che è la peste. Da aggiungere, poi, per completare il quadro, la paura dei terremoti o di altre calamità naturali. Ora è un’impresa davvero favolosa cercare di spiegare al leccese di oggi, come a quello di trecento o solo cinquant’anni, che lo sbarco di Giusto ad Otranto o a San Cataldo è solamente una leggenda, e che su quella leggenda si sonopoi innestate, a furor di popolo e di preti, decine di altre favole e favolette.

O che il bubbone della peste del 1600 0 del 1700 qui non attaccò perché il raggio di ammorbamento, com’è naturale, deve avere i suoi confini. O che dai terremoti ci siamo sempre parati perché pare, appunto, che la struttura della nostra crosta terrestre tenga un po’ di più.
E che, semmai, volendo per forza guardarci da qualcosa, altri sarebbero i cataclismi, altro il puzzo, altro il fetore. La peste. Comunque siamo sulla buona strada visto che la Tre Giorni non pullula solo di Patiti e di Venditori D’Aringhe, ma è attraversata da un mare azzurrino di jeans e dalla presenza, stavolta lievemente pagana, di turisti divertiti (le loro feste, di là durano settimane e sono feste davvero popolari e celebranti la gente e la sua fisicità). Ma si sa, questa festa di fine estate (arriva dopo tutti gli incontri festaioli dei paesi intorno) fatta soprattutto per celebrare tutti i Patiti dell’Ozio e della Battuta, gli appassionati raccoglitori di almanacchi, le Dolci Vanità delle Belle Signore, voluttà, profumi, “servole” arrostite, lazzi e intrallazzi, Cariche Pubbliche.

Il leccese è proprio in questi giorni che rafforza il suo bel temperamento di conservatore. E’ proprio in questi giorni che, tra discorsi e salacità, inneggia al suo bel passato, ai cunti, alla cupeta. ai Personaggi di ieri, in panciolle, fumettari, bottegai protagonisti di radiose e festose passeggiare su è giù per Villa Garibaldi. Come pure bottegaio e fumettaro è da considerare chi avalla tutto questo con fini ben precisi, sempre di conservazione o per non rompere una frittata che dura da molto ormai: un ottuso cronista cittadino, per esempio, che vede nel nostro atteggiamento solo snobismo o qualunquistiche disquisizioni.
Ma la Grande Festa continua. E per arrivare a dirvi qualcosa ci siamo lasciati coinvolgere, a bella posta, un lunedì mattina caldo e colorato. Sapete. I nostri soliti discorsi un po’ barocchi! Un numero incredibile di bancarelle, quasi un serpente multiodore e colore, copre ogni angolo di S, Oronzo. Stesso discorso per tutto Corso Trinchese fino a viale Lo Re. Prodotti d’ogni sorta, bancarelle grosse e piccole, corbellerie d’ogni genere dette dagli imbonitori a noi bovi; crestucce colorate, napoletani e baresi, mercanti del posto qui convenuti in odore di grossi affari; turisti che passano, ridono, e tirano avanti, qualche borseggiatore tra la folla, grosse e piccole macchiette, molti clic, molti trips e patatrac. Saremmo anche tentati di darvi un elenco di tutti i’ prodotti presenti. Ve lo risparmiamo. Vi basti la nostra simpatia per i canditi di Nunzio Spampinato e per i venditori di specchi. Sono in tanti! Ci avviciniamo al palco di centro – piazza. L ‘aria calda ammorbata da più profumi ci carezza in volto come madre dolciastra e voluttuosa. Aspettando che la banda di «Gioia del Colle» (veramente aspettando il suo maestro, che arriva dopo un bel po’. Anche seccato) dia man a qualcosa, ci siamo trovati tra i soliti Patiti che si lamentano «perché qua ci vorrebbe doppio concerto bandistico (uno sale e l’altro scende)». Straparlano, male naturalmente della DC con puntatine agli uItimi avvenimenti di Libia. Ovvero mescolamenti e rimescoamenti, nostalgici ricordi («quanto abbiamo dato per Tripoli!»), commozioni di coccodrillo su «come siamo stati e come siamo adesso». Si parla male della DC. Arriva il Maestro, ricomincia… la musica e tutto conte prima.
Vi dicevamo dei giovani, pimpanti e scollacciati, noncuranti che si muovono tra i palazzi e le chiese in ascolto, come un mare azzurrino tra lente e voluttuose folate di buoni canditi e formaggio fresco, peperoni fritti e Assessori Lessi. Puntuali da sempre, anche i giornaletti festaioli che nessuno compra (dovrebbero comprarli i Patiti, ma hanno l’intera piazza per le loro cronache!) ma che crescono ogni anno, a scapito della qualità naturalmente. La sera ci aspetta la «Lucia» di Donizetti, in piazza Duomo. E quando noi arriviamo, col buio, nel cortile del Vescovato quello che ci troviamo davanti è veramente uno slargo slavato con l’interno del Campanile illuminato e gli «elementi» del maestro Vitale fradici e sacrileghi. Ci si rivede.

Intanto, come uscito dai sotterranei della Cattedrale. con quella sua sincerità un po’ buffa e un po’ scontrosa, viene avanti Eduardo De Candia. E’ immenso. Sembra davvero un guerriero di Riace. Passiamo con lui l’ultima mezz’ora di questo primo festivaliero. Una tornata non certo eccezionale. con questo tempo che minaccia di mandare all’aria anche la seconda serata. I commercianti sono intanto più scuri del solito.

I prezzi e la pioggia impediscono che almeno questo aspetto della Tre Giorni funzioni. Chi non sarà per niente impedito sarà invece l’Arcivescovo Mincuzzi che, senza macchia o paura di bagnarsi col suo nuovo calice d ‘argento (ci pensò il Comune di Lecce a suo tempo: cifra stanziata un milione e mezzo) con tutti, o quasi tutti, i Leccesi in processione, celebrerà il rinnovato prodigio dell’allontanamento dell’antico fetore.
Ma e il nuovo?

Antonio L.Verri

 (da Spagine periodico del Fondo Verri)


 

lunedì 14 marzo 2022

Bucherer l'orologiaio di Antonio L. Verri (Kurumuny)

Bucherer l’orologiaio, l’ultima opera di Antonio L. Verri, pubblicata postuma nel 1995, è uno strabiliante congegno verbale attraverso il quale l’autore rivendica la sovrana libertà di una scrittura che danza vertiginosamente sul baratro dell’insignificanza. Se il romanzo è, com’è stato detto, il testamento di Verri, o il suo epitaffio, il messaggio che vi si legge lascia sgomenti: la letteratura è azzardo, e chi la pratica deve essere disposto a giocare la sua partita fino in fondo, pur sapendo di perdere. Perché il sogno di Bucherer, e dello stesso Verri, il progetto di trascrivere il mondo dentro un libro è semplicemente impossibile; ma il suo incanto risiede proprio nel ludico martirio dell’invenzione continua.

«Di cosa parla il romanzo, quindi? L’idea stessa di costruire mondi possibili che siano contenitori di parole rende chiaro il fatto che non ci troviamo dinanzi ad una storia in cui l’intreccio viaggia lungo i binari di una linearità evidente. Siamo a Zurigo, in un tempo non definito. C’è una voce narrante interna alla storia che alterna il racconto di sue vicende bizzarre che lo vedono protagonista tra le strade della città, accompagnato da personaggi dai nomi suggestivi come Sally, Hallucigenia e Opabinia, ad uno sguardo testimoniale volto a definire le azioni del personaggio che dà nome al romanzo, Bucherer per l’appunto. Questo orologiaio è impegnato nella costruzione di una specie di Arca, nella quale accumulare materiali vari, strani e a volte di difficile classificazione. Nei tentativi sfiniti di Bucherer di creare la sua Arca, delineati dalla voce narrante, si sente forte l’eco dell’autore che, dopo anni nei quali ha avuto una fiducia cieca nel potere della letteratura in quanto strumento grazie al quale poter cambiare davvero il mondo, si lascia andare ad una scrittura meno orientata al significato e più legata al significante.» [Rossano Astremo]
 

 

domenica 13 marzo 2022

Il pane sotto la neve (per Otranto, per occasioni) di Antonio L. Verri (Kurumuny)

Il pane sotto la neve (per Otranto, per occasioni) è l’esordio di Antonio L. Verri, pubblicato per la prima volta nel 1983, nella stessa collana inaugurata, solo pochi mesi prima, da un altro libro di culto della poesia del «Sud del Sud dei Santi», Forse ci siamo di Salvatore Toma. Il confronto con la propria vocazione letteraria e con le proprie radici, che è anche un fare i conti con le tradizioni, la storia, la letteratura e l’arte dell’Heimat, della piccola patria (il «sibilo lungo» della cultura contadina, il sacco di Otranto, Carmelo Bene, Vittorio Bodini, Rina Durante…), è il cuore pulsante delle poesie e delle prose sperimentali confluite in questa debordante raccolta-manifesto.

«Il pane sotto la neve è una raccolta unica nel suo genere, emblematica, perché a partire da un’occasione storica, quella di Otranto, e dalle occasioni letterarie, dagli incontri con maestri di inchiostro e di sangue, riesce a sigillare per sempre un anelito fortissimo per una rivoluzione di senso che sola può provenire da una pratica politica della poesia. «Fate solo quel che v’incanta», così scrive Antonio Verri, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta; ricordare questo monito poetico e riproporlo oggi, in un’epoca di disillusione e smarrimento di tutto ciò che è incanto, è uno dei messaggi più forti della scrittura di Verri, che nasce e si muove nell’alveo della poesia anche quando diviene prosa, cronaca. [...] Non è più la realtà a diventare materia poetica, ma è la materia poetica che diviene realtà, attraverso i termini e i modi che Antonio Verri statuisce, scrivendo, con l’antico, un dizionario del nuovo. Influenzato in ciò da quelli che sono i suoi riferimenti letterari, ma spinto soprattutto da un lirismo primigenio, con una ricerca sul senso che si accompagna a una profonda acutezza dell’udito, quasi all’auscultazione-ricerca di un suono inaudito, mostruoso, anch’esso naturale» [Luciano Pagano].

 


 

Cosa fa il collettivo/connettivo Fate Fogli di Poesia, Poeti!

Il Fondo Verri di Lecce, I Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno, La Casa della Poesia di Como, costituiscono il collettivo/ connettivo per la ricerca, promozione e diffusione della poesia nazionale e internazionale FATE FOGLI DI POESIA, POETI! In azione ideale con il manifesto di Antonio Leonardo Verri Il connettivo per la ricerca, promozione e diffusione della poesia nazionale e internazionale FATE FOGLI DI POESIA, POETI! è aperto all'inclusione su espresso desiderio e comunicazione dei richiedenti, di fondazioni, associazioni, aziende, enti pubblici e privati, attori sociali di ogni ordine e grado)

I componenti del Connettivo Fate Fogli di Poesia, Poeti!

Casa della Poesia di Como, Fondo Verri di Lecce, I Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno, Comune di Caprarica di Lecce, Associazione Sentiero dei Sogni, Compagnia Teatrale Scena Muta di Ivan Raganato, Associazione Culturale Macarìa, Gisella Blanco, ScriverePoesia Edizioni, Samuele Editore, Caffè Letterario - Lecce, puntoacapo Editrice, Ottavio Rossani, la rivista Utsanga diretta da Francesco Aprile e Cristiano Caggiula, Donato Di Poce, La Biennale di Poesia di Alessandria, NavigliPoetrySlam di Annelisa Addolorato, Vittorino Curci, Francesco Pasca, Marcello Buttazzo, Giuseppe Zilli, Alessio Arena, Alessandra Paradisi