Connettivo per la promozione della Poesia in azione ideale con il manifesto di Antonio Leonardo Verri
Connettivo per la promozione della Poesia in azione ideale con il manifesto di Antonio Leonardo Verri
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mercoledì 23 marzo 2022
lunedì 21 marzo 2022
In un albero c’è un violino d’amore: i boschi di Alda Merini. Intervento di Pietro Berra
"Tanti partecipanti, anche da Milano e dalla Svizzera, oggi alla passeggiata In un albero c’è un violino d’amore: i boschi di Alda Merini. Con Sentiero dei Sogni abbiamo seguito il filo rosso dell'amore e dell'accoglienza da Brunate fino a Como lungo un tratto della Lake Como Poetry Way, camminando incontro alla primavera e alla giornata mondiale della poesia. Grazie ai poeti - Sabrina Crivelli, Laura Garavaglia che ci ha portato la voce di Dmytro Chystiak da Kiev, Diego Conticello, Claudio Fontana -, al Comune di Brunate
e alla sua straordinaria bibliotecaria Maura Selmo, a Dario Bernasconi
della Società di muto soccorso di Brunate, agli attori del CUT Insubria - Centro Universitario Teatrale. A Roberto Deangelis, uno e trino (poeta, attore, persino cantante, ma soprattutto testimone e squisito ospite che ci ha aperto l'Eremo di San Donato - Como). E alla famiglia Balzaretti, che ha condiviso con noi il suo "balcone" su Como e un pezzo di mondo. Grazie, Mirna, che ti sei fatta in quattro per tenere assieme tutto e tutti con l'aiuto delle super volontarie del servizio civile" (Pietro Berra)
domenica 20 marzo 2022
Antonio Verri: la morte dell’oggetto unico by Francesco Aprile
Antonio Leonardo Verri (Caprarica di Lecce, 22 febbraio 1949 – 9 maggio 1993), poeta, romanziere, editore, operatore culturale, giornalista, aderì al Movimento di Arte Genetica fondato nel 1976 da Francesco Saverio Dòdaro e a partire dalla fine degli anni ‘70 si fece ideatore e promotore di riviste letterarie quali “Caffè Greco” (1979-1981), “Pensionante de’ Saraceni” (1982-1986) e “Quotidiano dei Poeti” (1989-1992), quest’ultimo andò ad intersecarsi dal 1991 con “Ballyhoo-Quotidiano di comunicazione”. Dal 1986 al 1993 collaborò con “Sudpuglia” e nel 1990 diresse “On Board”. L’impegno di Verri si collocava a pieno titolo in quelle aree della militanza culturale pugliese che dalle figure dei Fiore, Tommaso e Vittore, aveva avuto modo di articolarsi come prassi politica e letteraria, tentando un intervento attivo sul sociale, attraverso un investimento letterario e giornalistico che non lesinava polemiche, al punto che l’opera del poeta di Caprarica di Lecce è attraversata da invettive che spaziano dalle critiche al mondo editoriale a quelle rivolte all’immobilismo accademico. Curò le attività del Centro Culturale Pensionante de’ Saraceni e la collana “Abitudini. Cartelle d’autore” (1988-1990), contribuì alla collana “I Mascheroni” (1990-1992) per Erreci Edizioni, ed entrò come co-curatore ed editore di una serie di collane ideate da Francesco Saverio Dòdaro – “Spagine. Scrittura Infinita” (1991), “Compact Type. Nuova Narrativa” (1990), “Diapoesitive. Scritture per gli schermi” (1990), “Mail Fiction” (1991) – con le quali Dòdaro rileggeva la forma-libro pervenendo a violazioni estetiche e fruitive. A Cursi (Le), Verri istituì il “Fondo internazionale contemporaneo Pensionante de’ Saraceni”, una biblioteca composta da oltre tremila volumi. Per non smentire la sua vocazione di operatore culturale, organizzò due edizioni di una mostra mercato di poesia a cui diede il nome di “Al banco di Caffè Greco”. Organizzò, inoltre, due mostre: la prima su Joyce e Raymond Queneau, la seconda sul gioco dello Scrap (gioco di scrittura attraverso l’uso di scarti tipografici). Una semiautomatica per manifesti ha dato alla luce le sue prime opere, interamente stampate da sé. Rispettando il suo manifesto poetico, “Fate fogli di poesia, poeti, vendeteli per poche lire”, ha effettuato volantinaggio di poesie. Morì il nove maggio del 1993 in un incidente stradale.
1.
La proposta autorale di Antonio Verri,
nel periodo che qui si vuol considerare come suo apprendistato poetico –
dal fare rivista sul finire degli anni ‘70 a “Il pane sotto la neve”
(1983), fino a “Il fabbricante di armonia” (1985) –, appare colta in un
doppio vincolo; se da un lato l’autore non si risparmia dal punto di
vista dello scandagliare le radici popolari, dall’altro queste sono
ricercate non come espressione di un localismo letterario, al contrario
già dalla prima raccolta poetica, “Il pane sotto la neve”, appunto,
Verri, lungi dall’esaurire il discorso sul “popolare” al solo Salento,
procede in una estenuante ricerca che lo porta ad affrontare idiomi
provenienti da tutta Italia. Ritroviamo questo doppio vincolo come
caratteristica preponderante della prima parte della produzione
letteraria di Verri, il più delle volte esplicitata nella tensione
amore-odio che caratterizza il rapporto dell’autore con il territorio
d’origine. Si notino i diversi connotati del dualismo verriano dal
rapporto amore-odio di marca bodiniana che sfociava nei versi «Qui non
vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese / così sgradito da
doverti amare»; se il poeta de “La luna dei Borboni” viveva afflitto da
questa coppia oppositiva, l’amore-odio in Verri si sviluppava su
coordinate composite. Verri infatti, lontano dall’esprimersi nei termini
bodiniani sopracitati, costruiva un itinerario d’amore che a ben
guardare isolava determinati punti di contatto col territorio,
formulando una mappa dei suoi tòpoi, mostrando una serie di luoghi e
motivi (da Castro a Otranto, da Cardigliano ad elementi altri, quali il
vino ecc.) che assurgono a schema reiterabile che l’autore, di fatto,
elegge a struttura nelle varie tappe della sua produzione letteraria. In
questo senso, il doppio vincolo amore-odio non risulta esteso al
Salento nella sua totalità, al contrario l’amore appare radicato in una
serie di punti di sutura geo-esistenziali che costituiscono la
reiterabilità poetica dei luoghi; difatti, questi, sono scelti per la
loro sostanza poetica senza identificarsi con la totalità del
territorio. Al contrario, l’odio è articolato nell’attitudine polemica
che attraversa l’opera verriana, scagliato contro un territorio
colpevole di autoisolamento, opportunismo e clientelismi vari. “Il pane
sotto la neve”, aperto da un omaggio ad un nume tutelare della poetica
verriana, Carmelo Bene, procede sulle coordinate Bene-Joyce,
Lorca-Bodini, senza dimenticare le esperienze di Consolo e D’Arrigo, ma
anche Pavese ed uno sguardo già teso verso la Beat Generation di Kerouac
e Ginsberg. Il lorchismo italiano, nella fattispecie quello di marca
meridionale, tracciato negli anni da Carrieri e Bodini, è in parte
eletto a modello da Verri in questo primo frangente della sua opera,
salvo poi procedere ad uno scarto, sposando fin dall’esperienza de “Il
pane sotto la neve” gli stilemi del postmodernismo, i quali trovano agio
nelle sue parti in prosa e nelle successive “Varianti d’autore” de “Il
fabbricante di armonia”, dove il gusto per il gioco, le bufferie, il
calco, l’elencazione, il neologismo, diventa carattere predominante
sancendo un “andare oltre” rispetto alla poetica bodiniana. In una
raccomandazione del 1987, poi pubblicata in apertura della riedizione de
“Il pane sotto la neve” (Kurumuny 2003), Verri affermava che «fare
letteratura, da un bel po’, vuol dire soprattutto corteggiare,
avvicinarsi, al romanzo» e allo stesso tempo parlava di un omaggio alle
radici contenuto nel libro. Il motivo dell’opera trova nella coppia
oppositiva amore-odio ancora elementi di sviluppo. La pratica poetica,
se da un lato cerca i genitori, le radici, dall’altro è già proiettata
altrove e a testimonianza di ciò è possibile far riferimento all’ampio
campionario di termini provenienti dai più disparati dialetti della
penisola, i quali, assieme alla ricerca sul folklore salentino,
concorrono alla costruzione di neologismi e di una lingua materica,
composita, mescidata, costruita su corrosive stratificazioni culturali.
La costruzione di un melting pot letterario procede sin dalla prima
opera, agendo sulla falsariga di un Joyce omaggiato al punto da far
coincidere l’alter ego verriano col personaggio joyciano di “Stefan”
(Stephen Dedalus).
La curiosità verso le culture popolari è
manifestata in maniera chiara a partire dalla pubblicazione del testo
“La cultura dei tao” (1986) in cui l’autore afferma che «i proverbi
aprono al mondo». La direzione che il popolare assume nell’opera
verriana appare così determinata al raggiungimento di una apertura, di
una forzatura dell’orizzonte poetico e conoscitivo tale da rompere gli
argini territoriali. In questo periodo Verri ha già conosciuto Dòdaro,
ne sono prova la partecipazione di quest’ultimo alle riviste verriane,
le quali erano in un primo momento a carattere prettamente locale, dalle
tematiche agli autori coinvolti, salvo poi dilatare gli orizzonti a
partire dal contatto, dall’amicizia e dalla collaborazione di Verri con
Dòdaro. L’incontro Dòdaro-Verri può essere inquadrato nell’ottica
dell’influenza del primo sul secondo, seguendo la formula utilizzata da
Bufalino per qualificare l’influenza di Poe su Baudelaire; ossia nei
termini di un «vampirismo intellettuale» che comporta nel caso di Verri
un salto ed una maturazione poetica. Sulle pagine delle riviste verriane
l’orizzonte si amplia, vengono ospitati numerosi autori provenienti
dall’ampio raggio di collaborazioni dòdariane, da Lamberto Pignotti a
Luciano Caruso, da Klaus Groh a Ugo Carrega ecc., e allo stesso tempo è
Verri ad aprirsi al mondo, seguendo la formula poi indicata in “La
cultura dei tao”, stabilendo una serie di contatti autonomi, che in una
parte esigua e non rilevante, dunque non programmatica, aveva avviato
già a partire da “Il pane sotto la neve”, ampliandola in maniera
considerevole, aderendo, inoltre, alla tessitura propria di quel
“Salento europeo” che l’autore ricordava nella nota biografica del suo
“I trofei della città di Guisnes” (1988), ovvero quel «Movimento
Genetico di F. S. Dòdaro, una delle linee portanti del Salento europeo».
Nel 1988 Antonio Verri formalizzava la sua adesione al movimento di
Arte Genetica, ma si trattava solo di una tardiva formalizzazione, in
quanto l’autore aveva già da tempo iniziato a nutrirsi delle ricerche
dòdariane. Nella sua lettera di adesione scriveva: «Caro Saverio, ecco
la mia formale adesione al Movimento Genetico: dico formale perché tu
sai benissimo da quant’è che ho assorbito (e anche usato: Betissa e
Trofei fanno testo) le tue intuizioni genetiche, le tue geniali idee, i
tuoi voli, i vastissimi campi che possono essere esplorati dal tam tam
armonioso, materno, disarmante, monotono, primordiale, vitale; quanto la
poetica del tuo Movimento non dia altro, in definitiva, che l’idea del
corpo che racconta, copula, plasma, irrita.. […] Intanto aderisco, dopo
ti verrò a trovare perché, lo sai, non ho finito di usarti. Sto
chiedendomi per il Declaro, qual è (eccome) il segreto della ripetizione
o lo scavo, l’intreccio, la radice delle parole» (Verri, in Sudpuglia,
1989). A partire da “La cultura dei tao” l’opera di Verri è segnata da
un radicale e progressivo slittamento verso l’adesione al “femminile” in
quanto matrice e orizzonte della poetica, un passaggio espresso in una
forma embrionale nel testo del 1986 e definitivamente raggiunto nel 1987
con “La Betissa. Saga composita dell’uomo dei curli e di una grassa
signora”. È proprio la “Betissa” a farsi portavoce di quanto poi
l’autore affermerà nella lettera di adesione al Movimento Genetico. La
scrittura, intesa nei termini di un corpo che racconta è dunque un corpo
desiderante che sotto i colpi della parola, la quale veicola il
desiderio, è teso ad una continua ispezione e sedimentazione
dell’anthropos del quale tenta una trasposizione letteraria dove
«finalmente muoversi nell’oggetto del suo desiderio», come riporta Verri
a pagina 30 del suo “Il naviglio innocente” (1990). Dall’esperienza di
La Betissa in poi la madre appare sempre più radicalizzata e presente,
fondante l’intero asse della poetica verriana, ma non più assimilabile
alla figura della madre biologica, al contrario è colta nel movimento
desiderante della scrittura che in continuazione vede l’oscillazione di
questo desiderio entrare-uscire dalla madre in quanto tale che poi
appare come madre terra, mare, acqua, e quanti oggetti e visioni si
mostrano al poeta nella sua percezione autorale, in un tutto spesso
indistinto e senza forma, o quasi, che permette appunto l’estenuante
oscillazione della figura della madre in una frammentazione continua di
figure diverse. In questo senso subisce un duro contraccolpo anche la
figura dell’autore che smagrisce nel testo, diviene flebile. Attraverso
il contatto con l’opera dòdariana è l’adesione alle teorie di matrice
postfreudiana a delegittimare il soggetto autorale. L’Io è decentrato,
la fissazione identitaria appare incline allo smarrimento, si perde al
punto che l’autore è dislocato, è altro da sé e sconfina in una
costellazione di personaggi e luoghi, laddove la terra appare “porosa”,
recuperando l’amore verriano per l’opera di Walter Benjamin, ed i
confini fra corpo e spazio si fanno sempre più labili. Da questo punto
di vista, un tassello importante è dato, proprio in “La Betissa”, dalla
vicinanza di Verri all’opera di Samuel Beckett, in particolare il testo
verriano ricorda nella struttura e in alcune concezioni dello spazio
l’opera “Non io” dell’autore irlandese dove è possibile esperire il
corpo in quanto spazio; infatti sulla scena beckettiana appare una bocca
e solo quella è illuminata, il resto del corpo scompare nello spazio
buio del palco. Scrive Beckett: «Bocca: fuori. / dentro a questo mondo. /
questo mondo. / piccola minuscola cosa. / prima del tempo. / in questo
dio porc- / cosa?», e sembra fargli eco Verri: «Uno, punto sull’uno! /
Nulla lasciano di verde, nulla d’intatto / Due, punto sul due! / Nella
bocca maligna innestano una baionetta, e alla luna che si vela offrono
il dorso». Quella di Verri, da “La Betissa” in poi diventa così una
lingua sonora, melo-logica, improntata alla preponderanza sonora del
significante, ma senza apparire stritolata da questo in un marasma
primordiale come possiamo ritrovare in Zanzotto, via Emilio Villa, al
contrario quella di Verri permane come lingua sociale, culturale. A
legittimare l’ipotesi di una lingua-suono è proprio Verri che a pagina
38 della Betissa riporta «Mi accorgo solo ora che dòdaro ha ragione, che
poesia è ripetizione», facendo un chiaro riferimento alla teoria
genetica elaborata da Dòdaro e al conseguente battito materno come
matrice dei linguaggi, dunque suono e ripetizione. La scrittura appare
mitizzata, si pensi alla lettera di Alessandro, protagonista di La
Betissa, che indirizzata alla madre mostra come lo spostamento
all’interno del mito di Icaro dalle ali di cera al trabiccolo volante di
scrittura, metta in atto un processo di mitizzazione delle parole che
in Verri, avendo connotati desideranti, altro non sono che il corpo
attraversato e parlato dai significanti, in balia del contesto perché
indistinto da esso; la scrittura mitizzata è lasciata depositare ed
entrare-uscire dal corpo. La scrittura-madre, corpo-madre e
corpo-autorale, è colta nella dicotomia leggerezza-pesantezza, laddove
nelle ultime opere dell’autore si manifesta sempre più il carattere di
pesantezza, dell’impossibilità, del fardello dell’eterno ritorno. In
questo senso gli elementi della poetica vanno e vengono, tornano sempre
amplificati e i tòpoi verriani si ripetono in quanto struttura poetica e
narrativa, di volta in volta attraversati dalle diverse suggestioni del
momento.
2.
La reiterazione dei tòpoi letterari in Antonio
Verri, inquadrabili nei termini di struttura poetico-narrativa,
contribuisce a modellare l’opera sui piani del processo. Il tema
dell’incompiuto, del non finito, anima e attraversa la scrittura
verriana. In questo senso, dalla prima prova poetica, “Il pane sotto la
neve” (1983), al postumo “Bucherer l’orologiaio” (1995) il cerchio si
chiude solo all’apparenza: sta di fatto che l’opera permane come
incompiuta. Il progetto del “Declaro”, il libro, bullonato e infinito,
che doveva racchiudere il mondo – ossia un agglomerato, un brogliaccio
di documenti, fogli, scritti, nomi ecc. – si mostra, in realtà, solo
come una parte di quel tutto che è il “Declaro” stesso e che va oltre
l’idea del grande libro bullonato. La messa in opera del corpus verriano
evidenzia la reiterazione ciclica dei motivi, degli elementi, nelle
opere; di libro in libro ogni elemento torna, amplificato e variato.
Guisnes, la metropoli de “I Trofei della città di Guisnes” (1988),
costruita sulla trasfigurazione letteraria del borgo di Cardigliano
(Le), appare come la città dove tutto è parola. In questo senso Verri,
che dedica il libro, fra gli altri, “al battito creatore di F. S.
Dòdaro”, installa la scrittura all’interno dei concetti genetici mutuati
dall’opera di Dòdaro (percorso già avviato con “La cultura dei Tao”,
1986, e “La Betissa”, 1987), attraverso i quali entra in contatto con le
teorie di Lacan e indirizza il suo sguardo ai media. La metropoli dove
tutto è parola appare afflitta dallo statuto ontologico del linguaggio
che tutto avvolge e in sé accoglie. La scrittura diventa parabola
vitale, amplificandosi di testo in testo, in un processo che accresce la
parola e traccia la parabola vitale del poeta attraverso la rilevazione
degli umori, delle stanchezze, degli stordimenti. Il destino del
narratore de “I Trofei della città di Guisnes” appare segnato fin dal
suo nome: Guardone. Il narratore verriano, che è l’autore e una miriade
di personaggi, è una pluralità di “altri” che parlano attraverso di lui
che si osserva nel mentre è parlato dai significanti. Nel romanzo
“Ballyhoo Ballyhoo!” pubblicato nella collana “Compact Type. Romanzi in
tre cartelle” – ideata da Dòdaro e edita da Verri per le sue Edizioni C.
C. Pensionante de’ Saraceni nel 1990, il “fantasma di Lacan” è rilevato
da Giovanni Invitto, in un articolo apparso il 23 febbraio 1990 sul
Quotidiano di Lecce, che scrive: «Ritorna il fantasma di Lacan, di chi
ci avverte del contrasto tra l’Io che parla e l’Io che è parlato […].
C’è l’Altro che parla noi, siamo megafoni dell’Altro. […] Questa
decifrazione è, in Verri, nausea ma anche ritmo, “gioco per il piacere
del gioco” e autoconoscenza, ma soprattutto autoproduzione: “Ogni sera
ero tutti gli oggetti che riuscivo a proiettare”». La dimensione
ritmico-psicoanalitica, mutuata da Verri dalle ricerche di area
dòdariana, sposta il raggio d’azione della parola sulla condizione
plurima del soggetto privo di centro che, nel suo indebolirsi, instaura
un rapporto di sconfinamento con le superfici degli oggetti, recuperando
il dato esperienziale del corpo husserliano, la dimensione
fenomenologica della coscienza che è sempre “coscienza di”, guardando
agli oggetti in termini di superfici fluide e malleabili; passaggio,
quest’ultimo, che si registra in maniera consistente nel successivo “Il
Naviglio innocente” attraverso la metafora della grande nave “numerosa e
mnemonica. Immensa forma esclusa” che, come un grande motore di
ricerca, tutto contiene e stratifica linguisticamente in elenchi,
accumuli ecc. al punto che a pagina 25 del “Naviglio” si legge: «Una
sofisticatissima rete integrava, in un amalgama incosciente, dati e
suoni e immagini; l’opera continuamente si nutriva […]. L’opera si
rinnovava». Lo scavo verriano è quello di una autoesplorazione che
culmina, dalla “Betissa” in poi, in una reiterazione ossessiva e
accrescitiva degli elementi negativi. Il soggetto-autore, spossessato,
in balia delle parole, dei significanti, evidenzia l’impossibilità del
racchiudere il mondo e le sue strutture nelle parole. Il sogno
mallarmeano del mondo in un libro è trasposto nei termini di una
scrittura-processo: continuo divenire. Il carattere incompiuto è l’atto
con il quale l’autore trattiene nelle sue pagine il mondo in balia di
una molteplicità estrema. La presa di coscienza de “La cultura dei Tao”
dei “proverbi che aprono al mondo” evidenzia, a questo punto, il
tassello di partenza rappresentato da quei tòpoi popolari, luoghi e
motivi culturali, che riecheggiano nell’opera in virtù della loro
sostanza poetica e che in questo aprire al mondo perdono il carattere
dell’individuazione localistica, mutuando, dall’esperienza joyciana,
l’universalità che l’Irlanda assumeva nell’autore di “Ulisse” e
“Finnegans Wake”. Di fatto, la scrittura de “I trofei della città di
Guisnes” (1988), installa nel borgo salentino di Cardigliano
l’immaginario della metropoli con i suoi eccessi mediali, di linguaggio,
i suoi surplus di comunicazione che si riflettono nelle modalità di un
brusio linguistico, narrativo, costante e volto ad esprimere
l’impossibilità del silenzio elaborata da John Cage. In una nota
riguardante “Il Naviglio innocente” (1990), apparsa sul numero di marzo
1998 di Apulia, notava Gino Pisanò come «Verri risillaba il sentimento
dell’esclusione in questo manifesto della sua poetica affidato […] a un
linguaggio medianico che rivela e trascrive le pulsioni oscure dell’Es,
le visioni allucinate, la follia, le ossessioni, la Vorstellung del
mondo che solo il deragliamento dei sensi produce». Il tentativo del
Guardone-Narratore – ossia di colui che è parlato e si osserva, nel suo
essere altro da sé, nell’essere parlato – è quello di chi vuol tentare
l’impossibile: essere nel linguaggio, essere linguaggio ed al di fuori
di sé per osservarsi; ossia un linguaggio che riflette sul linguaggio,
ma dal di fuori, condizione, questa, che esprimerebbe l’impossibilità di
tale struttura e che è mostrata dall’opera di Wittgenstein, quel
bloccarsi davanti ad un indicibile che per il filosofo austriaco era un
luogo del “mistico”. Questo luogo, per Verri, diventa motivo
dell’esistenza poetica, letteraria, diventa, nella scrittura, quel luogo
dell’incompiuto che l’autore cerca di descrivere attraverso la messa in
opera di stati alterati di coscienza, rilevati da Pisanò nei termini di
un “deragliamento dei sensi”, ma che strizzano l’occhio a stati di
trance poetica. Sempre nel “Naviglio innocente” scriveva Verri: «Ero
sempre in tutto ma ero sempre più lontano dal mio corpo…in realtà, ecco,
quanto più il mio romanzo da un soldo cresceva tanto più io perdevo in
carnalità, quanto più il Declaro prendeva corpo tanto più il mio corpo
si sfaldava». Quello al quale perviene l’autore è un rapporto alterato
col proprio corpo e col mondo, riflettendo sul linguaggio in un
tentativo estremo di ossessione e visione allucinata. Il mondo come
sostanza linguistica, mediale, appare come una «nave delle parole» il
cui corpo «brulicava di video, certamente in essa viveva una unità di
memorie, un attrezzatissimo archivio, un vasto bosco di impulsi. […]
Aveva cominciato un giorno di tanto tempo fa, dopo aver scoperto
d’essere stato nel suo corpo attaccato da vari alfabeti, da forme
navicolari, allungate, da forme anche sfumate, incerte. Era l’inizio.
Aveva subito decretato la morte dell’oggetto unico, della singolarità.
Gli era apparsa una grande nave» (Verri, Il Naviglio innocente, 1990).
Questa rilevazione di un amalgama di elementi, di informazioni, di
oggetti che nel surplus di superfici malleabili sconfinano dall’uno
all’altro, perdendo il carattere di unicità, avanzando e proliferando
nella promiscuità, si riflette nella parallela produzione verriana di
poesia visiva. L’autore entra ancora una volta in contatto con un campo
di sperimentazione a lui, in una prima fase, estraneo, e lo fa
attraverso le ricerche di Francesco S. Dòdaro, già affermato
sperimentatore verbo-visivo quando Verri, al suo fianco, si avventura
fra le tipografie leccesi alla ricerca di scarti tipografici. È proprio
il motivo dello scarto a diventare tema centrale delle esperienze
maturate da Verri in area verbo-visiva. Lo scarto, lungi dal presentarsi
come resto, residuo, si modula sulla superficie dell’opera a partire
dall’accostamento di elementi differenti, i quali si attivano nella
costruzione di uno scenario plurale: oggetti, frammenti di lingue
diverse, slogan pubblicitari, corpi umani, materiche espressioni
gestuali del colore, grafismo, convivono nell’opera alternando accumuli e
momenti riflessivi in un unicum che vede la coabitazione di pieni e
vuoti. Ciò permette di attivare nell’opera verbo-visiva il già
collaudato meccanismo letterario dell’autore che vede il continuo
oscillare del linguaggio poetico-narrativo fra surplus di informazione,
accumuli, dunque pieni, e vuoti improvvisi che tentano e tastano un
silenzio irraggiungibile, ma che nei momenti pausativi del testo
permette l’autoesplorazione autorale. La sinestesia semantica di marca
verbo-visiva applicata dall’autore scopre, dunque, l’intricato gioco fra
pieno e vuoto, fra senso e nulla (quel nulla che per Verri non è
innocente) che si produce in un sovrasenso ludico e sonoro. Le tavole
dedicate da Verri a John Cage, raccolte dopo la morte dell’autore da
Cosimo e Salvatore Colazzo nel volume “Il suono casual” nel 1994 per le
edizioni Madona Oriente, ma in parte già pubblicate da Verri in “E per
cuore una grossa vocale” (pubblicato all’interno della collana
“Diapoesitive. Scritture per gli schermi” fondata e ideata da Dòdaro,
edita da Verri per le sue edizioni Pensionante de’ Saraceni nel 1990),
si fanno espressione di questa dicotomia fra pieno e vuoto. Lacerti di
giornali, alfabeti improvvisi, grafismi marginali, parti di libri e
riviste, fotografie di uomini e donne ritagliate, animano le
composizioni dell’autore che stratifica questi elementi, opera per
sovrapposizioni e tagli dei materiali che vanno a collocarsi sulla
pagina in posizione centrale o laterale; tuttavia, in entrambi i casi, è
la sensazione di marginalità, di chiacchiericcio, di quel “si dice”
dell’inautentico heideggeriano a stratificarsi sulla pagina. Il vuoto
dello spazio bianco attorno, al contrario si erge dal nulla che, per
contrasto, non è più il bianco, ma l’annullarsi dei materiali
logo-iconici, mostrandosi, il bianco, come nuovo luogo di parola. Questa
condizione, oltre ad evidenziare i rapporti che la ricerca verriana
intrattiene con l’opera di John Cage, mostra quelle influenze dòdariane
che Verri aveva già da tempo assorbito: quel vuoto come luogo di
creazione è la mancanza a essere lacaniana tanto studiata, assorbita e
rielaborata da Francesco S. Dòdaro sin dagli anni ‘70.
Nel 1990
Verri cura il volume “Le carte del Saraceno” al cui interno raccoglie
una scelta di operatori estetici salentini. Fra i materiali raccolti
compaiono una serie di opere verbo-visive dello stesso Verri; si tratta
di cinque tavole intitolate “Scrittura”, con apposita numerazione,
datate al 1989. Verri presenta una serie di collage, mixed media
prodotti attraverso l’utilizzo di materiali eterocliti: ritagli di
giornale, scarti tipografici, pittura gestuale. Su tutti, fanno capolino
i “Dis” dòdariani e le foto di John Cage a significare una continuità
decisa, sicura, sui percorsi di commistione avviati da Verri fra la
teoria genetica di Dòdaro e le esperienze di Cage, già evidenti nella
scrittura de “I trofei della città di Guisnes”. L’accumulo forsennato
dei materiali, qui, solo all’apparenza presenta una forte virata verso
il pieno con esclusione del vuoto, del nulla; la forte stratificazione
di lacerti di comunicazioni alfabetiche, giornali, riviste, libri,
slogan, e poi fotografie, è interrotta non dal bianco della pagina, ma
da decisi inserti materici e gestuali di colore i quali, all’interno del
surplus di informazione, frammentandolo, presentano il vuoto di un
corpo come punto nullo che risponde e cerca l’altro da sé che deve
necessariamente essere altro dal surplus invasivo di area mediale.
sabato 19 marzo 2022
UN GIORNO PER LA POESIA PENSANDO A TOMA E VERRI di Antonio ERRICO da Nuovo Quotidiano di Puglia, 21 marzo 2017
Mancavano quattro giorni a primavera. Il cielo era violaceo, e nevicava. Una neve così, di marzo, non si ricordava. Nell’ospedale di Gagliano, giù giù, a Finibusterrae, moriva Salvatore Toma, a trentasei anni. Ne sono passati trenta ormai ed è marzo un’altra volta e arriva un’altra volta primavera.
Salvatore Toma è un grande poeta. Non lo dico perché lo sosteneva lui, un po’ con ironia e un poco senza, facendosi stampare gli adesivi con la scritta a Great Poet che poi attaccava alle porte delle case e sui vetri delle automobili che a suo giudizio erano borghesi. Non lo dico perché siamo stati amici. Lo dico perché è un grande poeta.
Il grande poeta è uno che ci crede. Credere significa anteporre il pensare e l’essere poeticamente a qualsiasi altra cosa. Anche alla vita. Totò Toma antepose: senza nessuna riserva, nessuna cura di sé, senza pudore. La poesia per lui era bere solitario, un gioco di dadi, un azzardo, era conoscere cose orrende, senza fondo, meravigliose. Era la consapevolezza che poeti si nasce, ma a volte non si finisce. La sua poesia è stata un giocare sincero: “Hai giocato sincero/ perciò ci sei riuscito/ come quando mio fratello dice/ lo sapevo perché me lo sentivo!/( e bocciava tranquillamente/ il pallino)”.
Forse è tutta qui, alla fine del conto, la poesia. E’ tutta in un bocciare col cuore di panna e una mano di roccia il pallino del senso del vivere.
Ci ha creduto. Estremamente. Fino in fondo. Fino all’ultimo respiro. Fino all’ultima goccia di flebo che gli passò nelle vene in quel marzo nevoso, lì, giù giù, a Finibusterrae.
Torna primavera un’altra volta e un’altra volta torna la giornata della poesia.
Se fosse vivo Totò Toma, sentendo che si dedica una giornata alla poesia, sghignazzerebbe. Probabilmente masticherebbe turpiloqui. Se fosse vivo Antonio Verri, riderebbe fino a farsi venire l’attacco di tosse. Penserebbero che alla poesia non si può dedicare una giornata, che le si deve dedicare tutta la vita e tutta la morte.
Erano esagerati, certamente. Per loro la poesia era l’assoluto. Erano convinti che se non si è disposti a questa assoluta esagerazione, si deve andare a fare un’altra cosa, qualsiasi altra cosa, anche perché qualsiasi altra cosa è certamente redditizia mentre con la poesia si rimette sempre, tutto.
Loro sapevano che la poesia chiede molto, costa troppo, pretende in modo sproporzionato e non restituisce mai niente di quello che pretende e che si prende. “Sì, qualche volta l’ebbrezza/ d’esser vicini a qualcosa/ ma in che rari momenti/ e a che prezzo/ d’insofferenze, di rotture/ d’ogni più delicata trama d’affetti”, aveva detto uno dei padri che hanno avuto e che rispondeva al nome di Vittorio Bodini.
Spesso ci si chiede a che serve la poesia, oppure se ancora serva in un tempo di tracotanza, di superfluità, di mitologie sgretolate, di dei seppelliti, di utopie svaporate, di tecnologie tracotanti, in un tempo arrogante, borioso, indifferente, sotto l’impero dei mercati, nel contrasto vergognoso di opulenze e di miserie. Ma forse è proprio in un tempo che si mostra con una fisonomia deformata che serve la poesia, che serve una parola autentica e profonda, lontana da qualsiasi convenzionalismo, opportunismo, manierismo, artificio, accondiscendenza, autoreferenzialità, ambizione.
La poesia (quella vera, perché esiste anche la poesia falsa, l’esercizio senza alcun significato) è sempre stata un’esperienza di liberazione e di libertà. E’ questo che deve indispensabilmente continuare ad essere, conformandosi ai volti innumerevoli dell’Altro, ascoltandone le voci e i respiri, urlando contro le ingiustizie, le sofferenze, i qualunquismi, contro ogni sopruso, contro ogni ipocrita silenzio.
Deve indispensabilmente continuare ad essere poesia onesta. Lo diceva Umberto Saba in una prosa, agli inizi del secolo passato, nel 1911: ai poeti non resta altro da fare che la poesia onesta.
Allora ci si potrebbe chiedere se esista una poesia disonesta. Certo che esiste. E’ quella di corte e di cortile, quella che si parla addosso, che lascia qualcuno esattamente come lo ha trovato, quella che non provoca il pensiero, l’indignazione, la rabbia, che non scuote la sonnolenza, non intima l’allerta, che non spaventa chi con essa ha una relazione, prima di ogni altro colui che la pensa, nello stesso istante in cui la sta pensando.
Così ritorno a Salvatore Toma; scriveva: un grande poeta si riconosce soprattutto dalla paura che si fa.
Ma un grande poeta si riconosce anche dalla capacità di stare per la strada.
Così ritorno ad Antonio Verri, alla sua militanza entusiasta e innocente. Faceva fogli di poesia che vendeva a cento lire per le strade di Lecce. Si ostinava a pensare che la poesia dovesse stare tra la gente, che dovesse sprofondare nella storia per poi riemergere e attraversare il presente, ogni giorno che chiariva e che scuriva. Pensava che la poesia potesse cambiare le cose che dovevano essere cambiate attraverso la bellezza e lo stupore, e tanti gli dicevano che era un illuso, e lui rispondeva provateci un po’ a vivere senza un’illusione per vedere l’effetto che fa.
Sì, lo so bene che se nel luogo dove sono Toma e Verri dovessero venire a sapere che li abbiamo ricordati in occasione della giornata della poesia, uno ci direbbe parole che qui non si possono riferire e l’altro riderebbe fino alla tosse, ma sia la poesia che questa terra il ricordo glielo devono, costantemente. Per la semplicissima ragione che alla poesia e a questa terra, uno e l’altro hanno dedicato tutti i giorni avuti in comodato d’uso.
venerdì 18 marzo 2022
Bonea, Verri e gli amici di Verri di Gigi Montonato
Concepito nel 2003, per celebrare il
decimo anniversario della morte di Antonio Verri, l’opuscolo di Ennio
Bonea, “Antonio Verri, l’uomo-rivista”, vide la luce nella mia collana
“I quaderni del Brogliaccio”, al n. 2 – Marzo 2004. Ignoro se Bonea
(nella foto) avesse tentato prima di pubblicarlo altrove, senza riuscirvi. Lo propose
a me ed io glielo pubblicai. Il titolo fu suo, peraltro ripreso da Toni
Maraini (sorella di Dacia), che così aveva definito Verri.
Ho letto delle cose di Verri e su Verri post eius mortem, ma mai
mi è capitato d’imbattermi in una citazione di quell’opuscolo. Dal che
ho dedotto che quel lavoro non piacque agli amici e agli estimatori di
Verri.
Le ragioni probabilmente si perdono nel groviglio di rapporti obliqui
nel mondo degli intellettuali salentini. Bonea aveva i suoi amici e i
suoi devoti, ma aveva anche i suoi detrattori. Come tutti, del resto.
Antipatie e simpatie riemersero, ancora una volta, qualche anno fa nel
corso di una celebrazione alla Biblioteca Caracciolo a Lecce da parte di
Carlo Alberto Augieri, quando Valli rivendicò la superiorità della
scuola filologica di Marti contrapponendola a quella dalla quale era
disceso Bonea. Augieri e Giancarlo Vallone ne presero le difese.
Personalmente ho conosciuto Antonio Verri una sera di non ricordo bene
né giorno né mese del 1985 a Galatone, dove, promotore Vittorio
Zacchino, fu presentato il libro di Verri “Il fabbricante di armonia,
Antonio Galateo”. Prima non ci si era mai incontrati, ma lui diede ad
intendere che mi conosceva, chiamandomi per nome, e mi salutò con tanto
calore e tanta cordialità da farmelo percepire come una gran bella
affabile persona.
Ma torniamo al Verri di Bonea. Sono
trascorsi ormai quasi dieci anni da quell’opuscolo, venti dalla morte di
Verri, maggio 1993. L’ho ripreso in mano e me lo sono riletto. I
contenuti – una sorta di regesto delle sei riviste fondate da Verri –
sono preceduti da un prologo, in cui Bonea parla dell’irregolarità del
personaggio, che lui aveva avuto allievo all’Università di Lecce.
«Chi scrive – ricorda Bonea – lo ha avuto studente universitario ed ha,
forse, la responsabilità di avergli fatto abbandonare l’università e a
partire emigrante in Svizzera. Aveva una particolare concezione della
letteratura, che nulla aveva di organico. All’esame che egli sostenne di
Storia della letteratura moderna e contemporanea, ignorava del tutto il
programma svolto per le lezioni.[…]. Non si laureò mai».
Da docente, quale sono stato per quarant’anni, non posso non essere
d’accordo con Bonea. La scuola è fatta di programmi, di contenuti da
studiare e dimostrare di conoscere, di prove scritte e orali, un
universo di regole, di scadenze ineludibili e indifferibili. Chi, per
sua natura, è fuori da quell’ordine a scuola vive le pene dell’inferno.
Verri, ad un certo punto, volle farla finita; lasciò l’Università e se
ne andò a conoscere il mondo in ogni altra sua dimensione che non fosse
quella degli odiati piani scolastici. Finì in Svizzera, a lavorare come
tanti altri emigranti salentini.
Una più o meno simile esperienza la
visse Salvatore Toma al Liceo “Capece” di Maglie, dove il prof. Claudio
Micolano – severo professore di Italiano, Latino e Greco – non poteva
tollerare nella scrittura dei temi la forma scorretta dello
studente-poeta. Si dice: ma perché la scuola non comprende simili
soggetti? Per la natura stessa della scuola, che è fatta – come si
diceva – di regole. Gli sregolati o irregolari, che dir si voglia, per
quanto geniali, sono incompatibili.
Bonea, pur avendo per la poesia e la narrativa postmoderna, in cui Verri
scrittore sarebbe stato inserito dai critici, nella sua funzione di
docente non poteva non valutare Verri se non per le conoscenze di un
programma.
Forse Bonea, parlandone qualche anno dopo per ben altra ragione, sarebbe potuto entrare subito in medias res
senza sottolineare la di lui pregressa esperienza negativa. Anche
perché sul Verri fondatore e direttore di riviste c’era già tanto da
dire.
Il fatto va visto e spiegato in un contesto diverso. Verri – ma non è il
solo nel panorama salentino e meridionale – ha espresso con le sue
esperienze editoriali e i suoi scritti, a prescindere dal valore – un
aspetto di tipo classista degli intellettuali-scrittori. Egli aggiunse
alle dialettiche antinomie poveri-ricchi e proletari-borghesi, quella di
intellettuali privi di mezzi e intellettuali con abbondanza di mezzi,
rivendicando la partecipazione dei primi per rompere un dominio di
“classe”, altrimenti appannaggio esclusivo dei secondi.
Calzante o meno questo schema, di chiara derivazione marxista, sta di
fatto che è riscontrabile in gran parte del Salento e forse di tutto il
Meridione a partire, in crescendo, dalla metà del Novecento. Si tratta
di un fenomeno diffuso da analizzare con gli strumenti propri della
sociologia politica. E’ un aspetto importante della trasformazione
antropologica che ha caratterizzato e travagliato l’esistenza per secoli
delle classi povere, che con la crescente alfabetizzazione sono passate
dalle forme orali a quelle scritte della loro comunicazione, fino alle
opere letterarie vere e proprie. Non c’è paese del Salento in cui non
esista un Salvatore Toma o un Antonio Verri, forse non sempre alla
stessa altezza, ma sempre con lo stesso intento di imporsi in un mondo
dal quale spesso si viene esclusi o respinti. La grammatica, la
sintassi, la consecutio, i contenuti regolari, a cui la scuola,
ovvero la “classe dominante”, si appella per giustificare l’esclusione,
sono per questi poeti e scrittori le barriere architettoniche che
impediscono l’accesso ad un portatore di handicap. Ma essi, le barriere
formali dell’espressione, le possono violare e le violano. Il diritto di
esprimersi e di far sapere agli altri i loro pensieri, le loro idee, le
loro forme di comunicazione ha il sopravvento su tutto.
Perché io che non ho i mezzi non devo esprimermi, farmi conoscere e
magari valgo anche più di te che hai i mezzi e tutto quello che serve
per avere il successo? Ecco la domanda che i vari Verri si pongono. E
Antonio Verri organizzava riviste per creare spazi e metterli a
disposizione di quanti volessero esprimersi, a prescindere dalle regole e
qualche volta perfino a loro dispetto.
Probabilmente Bonea, scegliendo il Verri “uomo-rivista”, volle ribadire
la bocciatura dell’ ”uomo-scrittore”. E questo agli amici di Antonio non
è mai andato giù.
da Spagine - Periodico del Fondo Verri
giovedì 17 marzo 2022
Verri in “Con gli occhi al cielo aspetto la neve” di Rossano Astremo. Intervento di Marcello Buttazzo
In questo tempo ipertecnologico, abbiamo più che mai necessità di
riscoprire il cartaceo, i giornali, i libri, il profumo della poesia
d’inchiostro. La fatica e il sudore, che si sostanziano di parole, di
chi scrive come possibile e aurorale mestiere di vivere. Dovremmo
acquistare più quotidiani, più riviste, più libri, alfine di alimentare
fittamente la fiammella della conoscenza. La cultura è l’adattamento da
nutrire passo dopo passo, giorno dopo giorno, con pazienza, con
alacrità, con operosità. Amo frequentare l’edicola del mio paese e la
Libreria Palmieri di Lecce. A Lecce, presso la Libreria Palmieri, non si
va semplicemente ad acquistare un libro, ma a celebrare un incontro, un
rendez-vous con cari amici. La signora Anna Palmieri, intenta alla
lettura, nella sua postazione poetico- letteraria. E poi ci sono Luigi e
Daniela. Ieri mattina, sono andato a ritirare un volume, che avevo
prenotato giorni fa. “Con gli occhi al cielo aspetto la neve” (Manni
Editori, 2013) di Rossano Astremo, uno scritto sulla vita e sulle opere
di Antonio Verri. Un po’ d’anni fa, leggevo su “Il Nuovo Quotidiano di
Puglia” le recensioni e le incursioni letterarie di Rossano Astremo, che
oggi vive a Roma, ed è, tra le altre cose, un apprezzato docente e
scrittore. E qui ritorno sul concetto di adattamento culturale, che da
un punto di vista conoscitivo è qualcosa di più ampio e di superiore a
quello genetico e fisiologico. Così da poter asserire che la vera
evoluzione ormai non sia tanto quella biologica (studiata da Charles
Darwin e da altri naturalisti), che di fatto s’è pressoché arrestata, ma
quella culturale. In un tempo veloce che brucia e consuma tutto,
abbiamo bisogno di studiare, di leggere, di approfondire. E devo dire
che “Con gli occhi al cielo aspetto la neve” di Rossano Astremo è un
dolce viaggio nel mondo, nell’entusiasmo, nella militanza, nel candore
di Antonio Verri, un poeta, un intellettuale, che ha lasciato un segno
significativo nella storia della letteratura contemporanea.
su Spagine - Periodico del Fondo Verri
martedì 15 marzo 2022
Il Sant’Oronzo del 1981 in una cronaca di Antonio L. Verri
Fernando Bevilacqua propone via mail a Mauro Marino del Fondo Verri questa lettura…
Ci sembra proprio il caso di pubblicarla e di divulgarla
QUOTIDIANO DI LECCE 26 AGOSTO 1981
L’altra faccia della festa. La tre giorni di S.Oronzo
di ANTONIO L. VERRI
Tutto sotto il segno dello spettacolare.
E’ questa festa dei Tre Santi, puntuale da trecent’anni e più, sembra davvero
una occasione speciale, molto provinciale, narcisistica e devotamente
beota, per celebrare questo fine agosto salentino, meglio leccese, che
il cattivo tempo ed un cielo non molto amico rendono ancora di più fosco
e poco rassicurante. Pare che tutto sia da apportare allo sbarco, una
bella mattina d’agosto, di Giusto ad Otranto, o a quel morbo così tanto
manzioniano che è la peste. Da aggiungere, poi, per completare il
quadro, la paura dei terremoti o di altre calamità naturali. Ora è
un’impresa davvero favolosa cercare di spiegare al leccese di oggi, come
a quello di trecento o solo cinquant’anni, che lo sbarco di Giusto ad
Otranto o a San Cataldo è solamente una leggenda, e che su quella
leggenda si sonopoi innestate, a furor di popolo e di preti, decine di
altre favole e favolette.
O che il bubbone della peste del 1600 0 del 1700 qui non attaccò
perché il raggio di ammorbamento, com’è naturale, deve avere i suoi
confini. O che dai terremoti ci siamo sempre parati perché pare,
appunto, che la struttura della nostra crosta terrestre tenga un po’ di
più.
E che, semmai, volendo per forza guardarci da qualcosa, altri sarebbero i
cataclismi, altro il puzzo, altro il fetore. La peste. Comunque siamo
sulla buona strada visto che la Tre Giorni non pullula solo di Patiti e
di Venditori D’Aringhe, ma è attraversata da un mare azzurrino di jeans e
dalla presenza, stavolta lievemente pagana, di turisti divertiti (le
loro feste, di là durano settimane e sono feste davvero popolari e
celebranti la gente e la sua fisicità). Ma si sa, questa festa di fine
estate (arriva dopo tutti gli incontri festaioli dei paesi intorno)
fatta soprattutto per celebrare tutti i Patiti dell’Ozio e della
Battuta, gli appassionati raccoglitori di almanacchi, le Dolci Vanità
delle Belle Signore, voluttà, profumi, “servole” arrostite, lazzi e
intrallazzi, Cariche Pubbliche.
Il leccese è proprio in questi giorni che rafforza il suo bel
temperamento di conservatore. E’ proprio in questi giorni che, tra
discorsi e salacità, inneggia al suo bel passato, ai cunti, alla cupeta.
ai Personaggi di ieri, in panciolle, fumettari, bottegai protagonisti
di radiose e festose passeggiare su è giù per Villa Garibaldi. Come pure
bottegaio e fumettaro è da considerare chi avalla tutto questo con fini
ben precisi, sempre di conservazione o per non rompere una frittata che
dura da molto ormai: un ottuso cronista cittadino, per esempio, che
vede nel nostro atteggiamento solo snobismo o qualunquistiche
disquisizioni.
Ma la Grande Festa continua. E per arrivare a dirvi qualcosa ci siamo
lasciati coinvolgere, a bella posta, un lunedì mattina caldo e colorato.
Sapete. I nostri soliti discorsi un po’ barocchi! Un numero incredibile
di bancarelle, quasi un serpente multiodore e colore, copre ogni angolo
di S, Oronzo. Stesso discorso per tutto Corso Trinchese fino a viale Lo
Re. Prodotti d’ogni sorta, bancarelle grosse e piccole, corbellerie
d’ogni genere dette dagli imbonitori a noi bovi; crestucce colorate,
napoletani e baresi, mercanti del posto qui convenuti in odore di grossi
affari; turisti che passano, ridono, e tirano avanti, qualche
borseggiatore tra la folla, grosse e piccole macchiette, molti clic,
molti trips e patatrac. Saremmo anche tentati di darvi un elenco di
tutti i’ prodotti presenti. Ve lo risparmiamo. Vi basti la nostra
simpatia per i canditi di Nunzio Spampinato e per i venditori di
specchi. Sono in tanti! Ci avviciniamo al palco di centro – piazza. L
‘aria calda ammorbata da più profumi ci carezza in volto come madre
dolciastra e voluttuosa. Aspettando che la banda di «Gioia del Colle»
(veramente aspettando il suo maestro, che arriva dopo un bel po’. Anche
seccato) dia man a qualcosa, ci siamo trovati tra i soliti Patiti che si
lamentano «perché qua ci vorrebbe doppio concerto bandistico (uno sale e
l’altro scende)». Straparlano, male naturalmente della DC con puntatine
agli uItimi avvenimenti di Libia. Ovvero mescolamenti e rimescoamenti,
nostalgici ricordi («quanto abbiamo dato per Tripoli!»), commozioni di
coccodrillo su «come siamo stati e come siamo adesso». Si parla male
della DC. Arriva il Maestro, ricomincia… la musica e tutto conte prima.
Vi dicevamo dei giovani, pimpanti e scollacciati, noncuranti che si
muovono tra i palazzi e le chiese in ascolto, come un mare azzurrino tra
lente e voluttuose folate di buoni canditi e formaggio fresco, peperoni
fritti e Assessori Lessi. Puntuali da sempre, anche i giornaletti
festaioli che nessuno compra (dovrebbero comprarli i Patiti, ma hanno
l’intera piazza per le loro cronache!) ma che crescono ogni anno, a
scapito della qualità naturalmente. La sera ci aspetta la «Lucia» di
Donizetti, in piazza Duomo. E quando noi arriviamo, col buio, nel
cortile del Vescovato quello che ci troviamo davanti è veramente uno
slargo slavato con l’interno del Campanile illuminato e gli «elementi»
del maestro Vitale fradici e sacrileghi. Ci si rivede.
Intanto, come uscito dai sotterranei della Cattedrale. con quella sua sincerità un po’ buffa e un po’ scontrosa, viene avanti Eduardo De Candia. E’ immenso. Sembra davvero un guerriero di Riace. Passiamo con lui l’ultima mezz’ora di questo primo festivaliero. Una tornata non certo eccezionale. con questo tempo che minaccia di mandare all’aria anche la seconda serata. I commercianti sono intanto più scuri del solito.
I prezzi e la pioggia impediscono che almeno questo aspetto della Tre
Giorni funzioni. Chi non sarà per niente impedito sarà invece
l’Arcivescovo Mincuzzi che, senza macchia o paura di bagnarsi col suo
nuovo calice d ‘argento (ci pensò il Comune di Lecce a suo tempo: cifra
stanziata un milione e mezzo) con tutti, o quasi tutti, i Leccesi in
processione, celebrerà il rinnovato prodigio dell’allontanamento
dell’antico fetore.
Ma e il nuovo?
Antonio L.Verri
(da Spagine periodico del Fondo Verri)
lunedì 14 marzo 2022
Bucherer l'orologiaio di Antonio L. Verri (Kurumuny)
«Di cosa parla il romanzo, quindi? L’idea stessa di costruire mondi possibili che siano contenitori di parole rende chiaro il fatto che non ci troviamo dinanzi ad una storia in cui l’intreccio viaggia lungo i binari di una linearità evidente. Siamo a Zurigo, in un tempo non definito. C’è una voce narrante interna alla storia che alterna il racconto di sue vicende bizzarre che lo vedono protagonista tra le strade della città, accompagnato da personaggi dai nomi suggestivi come Sally, Hallucigenia e Opabinia, ad uno sguardo testimoniale volto a definire le azioni del personaggio che dà nome al romanzo, Bucherer per l’appunto. Questo orologiaio è impegnato nella costruzione di una specie di Arca, nella quale accumulare materiali vari, strani e a volte di difficile classificazione. Nei tentativi sfiniti di Bucherer di creare la sua Arca, delineati dalla voce narrante, si sente forte l’eco dell’autore che, dopo anni nei quali ha avuto una fiducia cieca nel potere della letteratura in quanto strumento grazie al quale poter cambiare davvero il mondo, si lascia andare ad una scrittura meno orientata al significato e più legata al significante.» [Rossano Astremo]
domenica 13 marzo 2022
Il pane sotto la neve (per Otranto, per occasioni) di Antonio L. Verri (Kurumuny)
Il pane sotto la neve (per Otranto, per occasioni) è l’esordio
di Antonio L. Verri, pubblicato per la prima volta nel 1983, nella
stessa collana inaugurata, solo pochi mesi prima, da un altro libro di
culto della poesia del «Sud del Sud dei Santi», Forse ci siamo
di Salvatore Toma. Il confronto con la propria vocazione letteraria e
con le proprie radici, che è anche un fare i conti con le tradizioni, la
storia, la letteratura e l’arte dell’Heimat, della piccola patria (il
«sibilo lungo» della cultura contadina, il sacco di Otranto, Carmelo
Bene, Vittorio Bodini, Rina Durante…), è il cuore pulsante delle poesie e
delle prose sperimentali confluite in questa debordante
raccolta-manifesto.
«Il pane sotto la neve è una
raccolta unica nel suo genere, emblematica, perché a partire da
un’occasione storica, quella di Otranto, e dalle occasioni letterarie,
dagli incontri con maestri di inchiostro e di sangue, riesce a sigillare
per sempre un anelito fortissimo per una rivoluzione di senso che sola
può provenire da una pratica politica della poesia. «Fate solo quel che
v’incanta», così scrive Antonio Verri, tra la fine degli anni Settanta e
l’inizio degli anni Ottanta; ricordare questo monito poetico e
riproporlo oggi, in un’epoca di disillusione e smarrimento di tutto ciò
che è incanto, è uno dei messaggi più forti della scrittura di Verri,
che nasce e si muove nell’alveo della poesia anche quando diviene prosa,
cronaca. [...] Non è più la realtà a diventare materia poetica, ma è la
materia poetica che diviene realtà, attraverso i termini e i modi che
Antonio Verri statuisce, scrivendo, con l’antico, un dizionario del
nuovo. Influenzato in ciò da quelli che sono i suoi riferimenti
letterari, ma spinto soprattutto da un lirismo primigenio, con una
ricerca sul senso che si accompagna a una profonda acutezza dell’udito,
quasi all’auscultazione-ricerca di un suono inaudito, mostruoso,
anch’esso naturale» [Luciano Pagano].
sabato 12 marzo 2022
venerdì 11 marzo 2022
giovedì 10 marzo 2022
mercoledì 9 marzo 2022
martedì 8 marzo 2022
lunedì 7 marzo 2022
domenica 6 marzo 2022
sabato 5 marzo 2022
giovedì 3 marzo 2022
mercoledì 2 marzo 2022
martedì 1 marzo 2022
lunedì 28 febbraio 2022
sabato 26 febbraio 2022
venerdì 25 febbraio 2022
giovedì 24 febbraio 2022
martedì 22 febbraio 2022
lunedì 21 febbraio 2022
Fate Fogli di Poesia, Poeti! Links
- Associazione Culturale Macarìa
- Associazione Sentiero dei Sogni (progetto ideato da Pietro Berra)
- Caffè Letterario - Lecce
- Compagnia Teatrale Scena Muta di Ivan Raganato
- Comune di Caprarica di Lecce
- Donato Di Poce
- Fondo Verri di Lecce
- Gisella Blanco
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- il non SENSOVERSO di Francesco Pasca
- La Biennale di Poesia di Alessandria
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- rivista Utsanga diretta da Francesco Aprile e Cristiano Caggiula
- SAMUELE EDITORE
- ScriverePoesia Edizioni
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Cosa fa il collettivo/connettivo Fate Fogli di Poesia, Poeti!
I componenti del Connettivo Fate Fogli di Poesia, Poeti!
I Don't Have Any Paper So Shut Up: (or, Social Romanticism) (New American Poetry) by Bruce Andrews
At once irreverent, serious, silly, intellectual, sexual, and relevant, Shut Up is a brilliant kaleidoscope of the social-sexual-political r...
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EUROPA IN VERSI FESTIVAL INTERNAZIONALE DI POESIA 2024 - “POESIA IN MOVIMENTO: UN PONTE TRA CULTURE”Corea del Sud e Messico i Paesi al centro di incontri e performance per esplorare le nuove forme di poesia contemporanea, aprire nuovi dialo...
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The Selected Poems of Wendell Berry gathers one hundred poems written between 1957 and 1996. Chosen by the author, these pieces have been...
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LECCE - Domenica 19 maggio, alle ore 20.00, al Fondo Verri, in via Santa Maria del Paradiso, 8 a Lecce, l’Ensemble Fondo Verri presenta “Fat...