Nell’ottica
del percorso che qui mi propongo appare più che mai necessario partire
da lontano, inquadrando la situazione all’ombra dei rapporti amicali e
culturali intrattenuti da Verri nel corso degli anni, al fine di
dimostrare come alcuni di questi siano poi stati fondamentali per
l’impianto letterario dell’autore. Per una più limpida esegesi
dell’opera, partirò dal 1991, anno di pubblicazione della collana Mail Fiction,
ideata da Francesco Saverio Dòdaro, curata dallo stesso assieme ad
Antonio Verri che ne sarà anche l’editore con le sue Edizioni del Centro
Culturale Pensionante de’ Saraceni. Mail Fiction, ovvero
romanzi su cartolina. Narrativa breve, che puntando sui costi bassi di
produzione per il supporto-cartolina si proponeva come militanza
letteraria-editoriale, svincolando la pubblicazione dai poteri forti
dell’establishment culturale, sovvertendo anche i rapporti
autore-editore, in quanto, visti i bassi costi di produzione, l’autore
diventava, o poteva diventare, editore, annullando la distanza fra le
due figure.
Scriveva Dòdaro nell’introduzione: «Mail Fiction:
romanzo per posta. Cartolina romanzo, ovvero i paesaggi della parola, le
rovine del tempo, le stazioni dei dispersi, i corsi delle lontananze:
le piazze dei processi di lutto. […] Il percorso che ci ha portato in
questa stazione di frontiera è iniziato lo scorso anno con la collana
Compact Type: il romanzo di tre pagine tessuto sull’ordito jamesiano,
della short story, del romanzo sintetico futurista, del minimalismo,
della new wave. Trame: le unità minime significanti della pubblicità,
del marketing e del giornalismo, per un verso, le radicali modificazioni
in atto nel lessico, dovute alla massiccia penetrazione dell’inglese:
il new stil novo, per altro verso. Altre tappe del viaggio sono state le
più recenti Sudden Fiction. American Short Short Stories, il
discorso di Foucault sull’usura e l’asservimento del linguaggio e le
pagine spartitempo di McLuhan sui media: il medium è il messaggio.
Questo il cammino che ci ha portato a formulare l’ipotesi Mail Fiction,
articolata su tre direttrici. Brevità: venti, venticinque righi capaci di penetrare nei depositi. New Medium: maggiore adesione dei media all’ora – la pagina del libro si è consumata, perdendo capacità comunicativa e credibilità. Autonomia poietica.
[…] Inoltre è un tentativo di rifondare la comunicazione
interpersonale, sul modello della ‘tradizione orale’» (Dòdaro, F. S., Mail Ficion. Free Lances, 1991).
1.2 Il rapporto Dòdaro-Verri e relative esperienze
L’incontro fra i due autori risale agli anni ’70. Francesco Saverio Dòdaro aveva fondato nel 1976 il Movimento Arte Genetica,
un gruppo di ricerca artistico-letteraria, con sede a Lecce, Genova e
Toronto, al quale avevano aderito, ruotando attorno alle riviste ed alle
attività del gruppo, alcuni fra gli esponenti più in vista della
ricerca internazionale, fra questi, ad esempio, Giovanni Fontana, Bruno
Munari, Adriano Spatola, Jean-Luc Nancy e molti altri. Antonio Verri era
uno di questi autori. Col Movimento Arte Genetica, Dòdaro
rintracciava l’origine del linguaggio nella mancanza a essere, di
lacaniana memoria, per la separazione del soggetto dal complemento
materno, considerando il linguaggio – artistico e non, dunque il
linguaggio nella più ampia accezione – come tentativo del soggetto di
colmare tale mancanza per la perdita dell’unità duale (onnipotente,
simbiotica – M. Klein / simbiotica, onnipotente, totalizzante, duale –
M. Mahler) originaria. Il linguaggio è il modus operandi dell’esistente
volto a rifondare la coppia. Inoltre, appare una musicalità insita in
ogni linguaggio umano, questa è rintracciabile, secondo le teorie
“gheniche”, nell’archetipo del battito materno ascoltato in età fetale,
ossia la prima forma di linguaggio. Due furono le riviste del movimento:
Ghen, con sede a Lecce, e Ghen Res Extensa Ligu, con sede a Genova. Ai fini del discorso qui intrapreso, risulta importante la rivista Ghen,
edita a Lecce, e che su idea di Dòdaro si presentava come “giornale
modulare”, nell’ottica di quanto da lui espresso più volte, ovvero “il
modulo come unità di misura del pensiero”. Dal modulor di Le Corbusier,
dunque, da quel concetto per cui l’uomo si fa unità di misura nella
disciplina architettonica, alla razionalizzazione in quanto
strutturazione e fruizione del pensiero poietico nella condizione di
riproducibilità materico-letteraria dello spazio del modulo. Il modulo,
anticipava la concezione di brevità che avrebbe portato Dòdaro a
formulare la sua idea di romanzo su cartolina. Il modulo misurava,
infatti, 16×12 cm, poco più di una cartolina. Il passaggio che porta
alla Mail Fiction ha radice negli anni ’70 del movimento di Arte Genetica, passando attraverso altre collane ideate da Dòdaro: Scritture (Parabita, Il Laboratorio, 1989 – scritture di ricerca, poesia verbo-visiva, scrittura simbiotica e concettuale su cartolina), Compact Type. Nuova Narrativa (Caprarica di Lecce, Edizioni C.C. Pensionante de’ Saraceni, 1990 – romanzi in tre cartelle).
Antonio Verri, nel periodo in cui incontrava Dòdaro, appariva impegnato prima nel progetto-rivista Caffè Greco, poi nella rivista Pensionante de’ Saraceni. La prima esperienza di Caffè Greco
si mostrava ancora di carattere locale. Successivamente, Verri amplia
la sua rete di contatti, aprendo a tematiche di più ampio respiro per la
letteratura italiana e non, ospitando autori di livello nazionale,
inglobando già a partire dal Pensionante le diramazioni
internazionali della ricerca verbo-visiva di Dòdaro, potendo contare,
dunque, sulla pubblicazione di autori storici come Lamberto Pignotti, ad
esempio.
1.3 Le avverse vicende del romanzo-cartolina: ambiguità storico-critiche
Il 3 dicembre 1991 sul “Quotidiano di Lecce” un intervento titolava Come fogli al vento. Nasce nel Salento la trasgressiva e funzionale “cartolina romanzo”,
proponendo un excursus sull’iniziativa, sulle sue peculiarità, parlando
della curatela Dòdaro-Verri e delle precedenti iniziative editoriali.
Sabato 22 febbraio 1992, su “Notes. Appunti dal Salento”, un intervento
di Silvia Cazzato ricostruiva la storia editoriale di Mail Fiction,
l’ideazione di Dòdaro che per non gravare sulle tasche di Verri,
propose il progetto ad altro editore, ma che a causa dei lunghi tempi di
attesa per la pubblicazione, scelse di contattare Verri. Si legge
nell’articolo-intervista: «Non contattai subito Verri. Non era il caso
di appesantire ulteriormente il leggendario impegno editoriale di uno
degli animi poetici più suggestivi del Mezzogiorno. Conoscevo le sue
rinunzie (una “500” per casa, il ritratto della bianchissima Madre
sempre sulle pareti del desiderio -, un panino per pranzo). Conoscevo
benissimo le difficoltà economiche (partita in rosso per i “Compact” e
tante altre cose). Mi rivolsi ad un altro Editore salentino, da anni
impostosi in campo nazionale per l’ottima e rigorosa professionalità. La
proposta fu subito accolta con grande entusiasmo. […] Quando tutto
sembrava andare verso una immediata realizzazione, nacquero delle
difficoltà che non si riuscì a superare e che portarono al reciproco
disimpegno. I principali ostacoli furono il “tempo”, scandito dalla
scaletta aziendale, e la “linea culturale”. La mia posizione: quando si
sta in prima linea non si possono fare attacchi a lunga gittata, inoltre
bisogna disporre di truppe giovani. […] Una sera, poi, feci accenno a
Verri di ciò che avevo sognato. Fu subito inchiostro».
Il primo marzo del ’92 su L’Espresso un articolo intitolato Imbuca quel libro. Nascono i libri-cartolina,
attribuiva l’ideazione del romanzo cartolina alla Nuova Compagnia
Editrice che su cartolina pubblicava autori noti della letteratura quali
Rimbaud, Leopardi, Manzoni. Su La Repubblica del 10 aprile 1992, Simona
Poli presentava l’invenzione del romanzo-cartolina attribuendola alla
Guaraldi / Nuova Compagnia Editrice, come già avvenuto su L’Espresso.
Immediatamente sul Quotidiano del 12-13 aprile 1992 Ennio Bonea
nell’intervento Ma il “libro postale” non è una novità
scriveva: «Qualche mese fa, Antonio Verri, con una delle solite,
inaspettate, sortite, inventò, anzi reinventò, una moda letteraria che
aveva dei precedenti: la Mail Fiction, romanzo per posta, come
introducendola, scriveva F. S. Dòdaro, compagno di avventate… avventure
di Verri». Bonea, così scrivendo, attribuiva a Verri l’ideazione di un
progetto editoriale non suo e al cui interno entrava invece come
co-curatore e editore, laddove il riferimento di Bonea “reinventò” non
svela la paternità dell’idea riconducendola a Dòdaro, anzi la smussa, la
copre, accennando soltanto al precedente storico della Mail Art con la
New York Correspondence School di Ray Johnson del 1962 (i cui
antecedenti appaiono nel Futurismo italiano e nelle esperienze Dada).
Diverso è il discorso, eluso, non affrontato da Bonea, riguardante la
narrativa postale codificata da Dòdaro. Eppure, l’incipit di Bonea
andava oltre, spostando completamente l’asse del rapporto editoriale,
letterario, culturale, fra Dòdaro e Verri, capovolgendone i ruoli con
l’utilizzo, forse grossolano, di una sola parola, quel “inventò” che
pospone in apertura al nome di Verri, dando avvio ad una serie di
ambiguità storico-critiche che trovano dunque una prima storicizzazione
in quel suo intervento dell’aprile 1992.
2. Il rapporto Dòdaro-Verri nelle critiche di Maurizio Nocera
2.1 Nebbie bibliografiche
A
Maurizio Nocera, amico e collaboratore di Verri, ma in diverse
occasioni anche collaboratore di Dòdaro, si devono la ripubblicazione
delle prime opere di Verri, tutte per le Edizioni Kurumuny: Il pane sotto la neve…più altro pane; Il Fabbricante di Armonia; La Betissa. Inoltre, va considerata l’operazione con cui vengono raccolti i numeri del Quotidiano dei poeti/Ballyhoo – Quotidiano di comunicazione.
Sempre a Maurizio Nocera si devono anche alcune questioni, forse
lacunose, che guardando alla ricostruzione del profilo bibliografico del
poeta di Caprarica di Lecce gettano banchi di nebbia su ciò che in
quegli anni accadeva nel Salento. In ogni ripubblicazione curata da
Nocera, il profilo bibliografico di Verri presenta alcune ambiguità
dettate probabilmente da lacune, ricostruzioni grossolane, mancanza di
precisione, inadeguata metodologia. Verri, nella sua attività
editoriale, fu co-curatore in alcune collane ideate da Dòdaro: Compact Type. Nuova Narrativa (1990), Diapositive. Scritture per gli schermi (1990), Spagine. Scrittura Infinita (1991), Mail Fiction
(1991). In ognuna delle ripubblicazioni curate da Nocera, ma anche in
molti lavori successivi portati a termine da vari critici, non è mai
riportata l’esatta attribuzione delle collane, lasciandole, queste,
all’indeterminazione storico-critica che tali ambiguità comportano. Dal
capovolgimento che si registra nello scritto di Ennio Bonea, nel 1992,
alle note bibliografiche ricostruite da Nocera, il rischio, per i
critici che decideranno di occuparsi dell’opera di Verri, di inciampare
in conclusioni avventate ed errate attribuzioni appare evidente. Come
evidente è il danno storico che ne consegue.
2.2 “Danzare la gioia, danzare il dolore”, forzature folcloriche nella critica di Maurizio Nocera
Questo
segmento, dedicato ancora alle interpretazioni critiche di Maurizio
Nocera, si apre con la ripresa del titolo di un suo intervento, appunto Danzare la gioia, danzare il dolore,
pubblicato il 25 aprile 2011 sul sito dell’Università Popolare Aldo
Vallone, Galatina. L’intervento appare evasivo, alludendo e manifestando
teorie, che attraverso una attenta analisi dei testi pubblicati sulle
riviste del Movimento Arte Genetica, facilmente possono essere confutate, ma ancora una volta si corre il rischio di una inesatta storicizzazione dei fatti.
Scrive
Maurizio Nocera nel suo intervento che «Sul finire degli anni ’70,
quando ancora non si era pensato e tenuto all’Università salentina, il
convegno su “Il ragno del dio che danza”, un movimento artistico
leccese, facente capo al pittore e critico d’arte Francesco Saverio
Dòdaro, il movimento Ghen, partendo da posizioni psicoanalitiche
lacaniane, ebbe una felice intuizione. Andando alla ricerca dell’origine
del suono, questi scoprirono che esso fondamentalmente è coniugato in
modo inscindibile al movimento, entrambi poi hanno origine nello stesso
momento in cui vengono pensati, quindi creati. Gli artisti in questione,
che pubblicarono anche un loro giornale in un numero limitatissimo di
copie, scoprirono che nel momento in cui un essere vivente è generato,
l’esplosione creatrice provoca istantaneamente un suono vitale ed un
movimento cinetico, che, sempre, e sulla base delle leggi universalmente
conosciute, si effonde in un senso che assume il carattere naturalmente
antiorario, proprio così come fa il pianeta Terra girando su stesso, e
quindi attorno al sole. Gli artisti leccesi fecero l’esempio del
concepimento di un essere umano e constatarono che l’impatto di uno
spermatozoo con un ovulo in un utero provoca il suono ghen,
corrispondente al battito cardiaco, quando contemporaneamente inizia il
movimento ghen, corrispondente alle pulsazioni dell’essere ancora allo
stato amebico. Gli artisti in questione pensarono che tutto questo
fenomeno altro non era che il momento fondante della vita, pensata come
il risultato ideale dell’armonia della mente col corpo dovuta alla
musica (suono) e alla danza (movimento). […] Un merito gli artisti
leccesi del movimento Ghen lo ebbero, cioè quello di aver fatto
l’esempio della creazione di un nuovo essere umano (un bambino o una
bambina) e di avere coniugato il suono (la musica) al movimento (la
danza)».
Eppure, negli interventi che delineano lo sviluppo
teorico del movimento, mai appaiono gli elementi messi in risalto da
Nocera. Nel numero di Ghen del giugno 1978, Dòdaro, in un intervento intitolato Link,
definisce i legami maternali indagandoli attraverso un trittico di
manifestazioni storiche, quali arte, religio e vita sessuale. Partendo
da un’analisi comparativa di queste tre manifestazioni individua il
seme, attraverso lo sviluppo dialettico e le matrici nodali, per cui
secondo lo stesso Dòdaro è il legame, il link, quel senso primario che le accomuna. Il termine Arte, dal latino Àr-tem, dalla radice Ar che nel sanscrito e nell’avestico (zendo)
assume i significati di mettere in moto, muoversi verso qualcosa o
qualcuno, aderire, attaccare, si connota come manifestazione umana del
tenere insieme (da qui l’individuazione, anche, del linguaggio come
rifondazione della coppia). Per il termine religio, Dòdaro procede attraverso le analisi di Benveniste, che in avestico trova l’aggettivo sūra – aggettivo della stessa famiglia di Spənta,
appellativo usato per le sette divinità che presiedono alla vita
materiale e morale dell’uomo – identificato con forte, ma che significa
anche gonfiarsi, dal verbo Sū– accrescersi, che implica forza, ma anche prosperità. Un rapporto simile è possibile individuarlo col greco Kueîn (essere incinta, portare nel proprio seno) e Kûros (forza, sovranità).
«Il
carattere santo e sacro si definisce così in una nozione di forza
esuberante e fecondante, capace di portare alla vita, di far sorgere i
prodotti della natura» (Benveniste E., Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. Potere, diritto, religione, Volume II, pp. 422, 423)
Per quanto riguarda le manifestazioni della vita sessuale, nel numero di Ghen del 1979, in un intervento intitolato Codice Yem,
scrive Dòdaro: «Il dito in bocca del fanciullo, le ispezioni vaginali
ed anali, il piacere nel ricevere lo sperma, la stretta di mano,
l’istanza del contatto e del calore in genere, il bacio; tutti aspetti
che denotano la ricerca della temperatura e dell’umidità proprie
dell’ambiente prenatale che è liquido e non gassoso».
In tutte e
tre le manifestazioni, la madre appare come la significazione profonda.
Il ritorno ad essa è, non in quanto madre, ma in termini di rifondazione
della coppia da considerarsi come rifondazione dell’anthropos,
all’interno di un mondo fondato sulla negazione della cosa primigenia, sul residuo di godimento che modula l’esistente.
Inoltre,
la lettura di Nocera, considerando Dòdaro come un pittore, rischia di
diventare ancor più fuorviante, quando, invece, trattasi di un autore
che ha dedicato 4 anni alla pittura e 60 alla ricerca letteraria. Quanto
proposto da Nocera ci consegna un quadro storicamente poco chiaro e
spesso poco aderente a quanto svolto dai rispettivi autori.
3. Le declinazioni verriane nella critica di Simone Giorgino
3.1 Il rapporto Dòdaro-Verri. Una mancanza fondamentale
Quanto affermato nelle analisi precedenti si mostra importante anche alla luce di una lettura critica del testo Antonio L. Verri. Il mondo dentro un libro,
di Simone Giorgino per Lupo Editore, 2013. Come per le precedenti
critiche, nel libro in questione non si attesta mai la paternità delle
collane sperimentali che hanno trovato pubblicazione all’interno del
sodalizio Dòdaro-Verri. Attestarne la paternità non può e non deve
assolutamente passare in secondo piano nell’ottica più ampia di una
analisi critica dell’opera verriana, in quanto una corretta
ricostruzione, dunque contestualizzazione, si pone come il primo e
necessario passo, e dallo sguardo di tale prospettiva poi si ravvisa il
dipanarsi dell’opera. Secondo quanto riportato da Giorgino «Nel 1988,
come già ricordato, avviene l’adesione di Verri al Movimento Genetico,
un movimento d’avanguardia sorto a Lecce nel 1976, che raggruppa, sotto
la guida di Francesco Saverio Dòdaro, artisti di diversi settori, i
quali riconoscono radici genetiche comuni a ogni forma di manifestazione
artistica, da loro intesa come tentativo di una non meglio precisata
riunificazione con la madre» (Giorgino S., pp. 60 – 61, 2013).
Antonio Verri formalizza nel 1988 la sua adesione al Movimento Arte Genetica,
ma in realtà attinge già da anni alle teorie di Dòdaro, che da Giorgino
vengono liquidate in una manciata di righi, senza entrare nel vivo di
quelle modificazioni che l’impatto con esse provoca in Verri. Il poeta
di Caprarica di Lecce, scriveva nella sua lettera di adesione al
movimento, passaggio, fra l’altro, riportato in parte anche da Giorgino,
«Caro Saverio, ecco la mia formale adesione al Movimento Genetico: dico
formale perché tu sai benissimo da quant’è che ho assorbito (e anche
usato: Betissa e Trofei fanno testo) le tue intuizioni
genetiche, le tue geniali idee, i tuoi voli, i vastissimi campi che
possono essere esplorati dal tam tam armonioso, materno, disarmante,
monotono, primordiale, vitale; quanto la poetica del tuo Movimento non
dia altro, in definitiva, che l’idea del corpo che racconta, copula,
plasma, irrita.. […] Intanto aderisco, dopo ti verrò a trovare perché,
lo sai, non ho finito di usarti. Sto chiedendomi per il Declaro, qual è
(eccome) il segreto della ripetizione o lo scavo, l’intreccio, la radice
delle parole» (Verri A. L., 1989, p. 134).
La lettura dei testi
verriani, dalle opere alle lettere, mette bene in luce come il legame
fra i due sia di profonda amicizia e stima letteraria, al punto che
Verri appare sbalordito davanti a quelle che definisce illuminazioni,
ossia gli scavi teorici portati a termine da Dòdaro, ed a questi attinge
senza sosta. A pagina 17 del suo testo, Giorgino, affrontando il legame
fra Verri e la madre mostra come «Antonio provasse un legame viscerale
per la madre, figura centrale della sua produzione letteraria da Il pane sotto la neve fino almeno a La cultura dei Tao».
La Cultura dei Tao
è il testo che qui prendo in considerazione come la svolta decisiva
verso la maturazione poetica di Verri, ed è il testo che precede La Betissa. Eppure, quanto scritto da Giorgino è smentito dalle stesse parole di Verri, che nella già citata lettera di adesione al Movimento Genetico affermava apertamente di aver fatto ampio uso delle teorie genetiche ne La Betissa e nei Trofei, mostrando il tam tam armonioso e materno in termini di corpo che racconta. E proprio questi connotati assume la scrittura di Verri a partire da La Betissa.
La dimensione di un corpo desiderante che sotto i colpi di una spinta
primigenia è teso, nella forma della parola – l’umanizzazione del
desiderio, dunque linguaggio – ad una continua ispezione e
sedimentazione dell’anthropos rivolta ad una trasposizione letteraria
dove «finalmente muoversi nell’oggetto del suo desiderio» (Verri A. L.,
1990, pp. 30-31). Dall’esperienza di La Betissa in poi la madre
appare sempre più radicalizzata e presente, fondante l’intero asse
della poetica verriana, ma non più riscontrabile in forma esclusiva
nella figura della madre che inculca «i racconti del folclore salentino»
(Giorgino S., 2013, p. 17), ma colta nel movimento desiderante della
scrittura verriana che in continuazione oscilla fra gli stili e, oltre,
vede l’oscillazione continua di questo desiderio entrare-uscire dalla
madre in quanto tale che poi appare come madre terra, mare, lago, acqua,
e quanti oggetti e visioni si mostrano al poeta nella sua percezione
autorale, in un tutto spesso indistinto e senza forma, o quasi, che
permette appunto l’estenuante oscillazione della figura della madre in
una frammentazione continua di figure diverse. Qui l’autore appare
similmente al bambino che vivendo un rapporto simbiotico con la madre
risulta indistinto da essa e dal contesto. L’autore è la madre che è
madre carnale, oggetto, luogo, sasso, mare, acqua qualsiasi, e via
dicendo. L’autore è la madre che è quanto già elencato ed altro ancora,
ma ecco che l’autore è poi il suo alter ego e tutti i suoi personaggi,
in un rapporto di identificazione con la scrittura fattasi corpo
desiderante. La scrittura, mitizzata, si pensi alla lettera di
Alessandro, protagonista di La Betissa, che indirizzata alla madre mostra come lo spostamento all’interno del mito di Icaro
dalle ali di cera al trabiccolo volante di scrittura, metta in atto un
processo di mitizzazione delle parole che in Verri, avendo connotati
desideranti, altro non sono che il corpo ad uno stato primigenio,
originario, attraversato e parlato dai significanti, in balia del
contesto perché indistinto da esso, la scrittura mitizzata è lasciata
depositare ed entrare-uscire dal corpo. La scrittura-madre, corpo-madre e
corpo-autorale, è colta nella dicotomia leggerezza-pesantezza, laddove
nelle ultime opere dell’autore si manifesta sempre più il carattere di
pesantezza, dell’impossibilità, del fardello dell’eterno ritorno (gli
elementi della poetica vanno e vengono, tornano sempre amplificati).
3.2 Elementi folclorici
Per
quanto riguarda gli elementi del folclore salentino bisognerebbe tenere
a mente che il contesto in cui Verri muove i primi passi, sia come
autore che editore-operatore culturale, è quello del Salento degli anni
’70, dell’avvio alla riscoperta del folclore che assume connotati
politici, o meglio: la non assunzione di una valenza politica e di una
coscienza civile, sociale, attraverso l’utilizzo del folclore, avrebbe
decretato il fallimento stesso della riproposta. In questo contesto si
inserisce l’operazione di Verri, alquanto pasoliniana, che nella presa
di coscienza politica matura un assetto etico filtrato attraverso la
poetica impegnata di Roversi. C’è una luce, quella della storia,
manifesta nel sole e che è sofferta, che nella pasoliniana ripresa delle
culture antiche coltiva un rapporto diverso coi luoghi, scardinandoli e
facendoli mondo. È presente in certa misura un nutrimento poetico che
attrae a sé l’opera di Cesare Pavese e l’afflato lorchiano, nella
condizione in cui Verri pone a sé ed alla sua ricerca il continuo
confrontarsi col mondo per mezzo di tutta una serie di oggetti, luoghi e
legami mitici, topoi, poietici, che costituiscono archetipicamente la sostanza del mondo verriano. È proprio il Verri de La Cultura dei Tao
a dettare il passo di questa matrice globale, affermando che «i
proverbi aprono al mondo». Non è la madre zanzottiana porta d’accesso
alla lingua originaria, la lalingua (lalangue), e non è il territorio, dunque il Salento, come correlativo del bosco (fa testo il Galateo in bosco
di Zanzotto) inteso come luogo del rimosso, al contrario del
luogo-Salento appaiono in Verri soltanto una serie di oggetti, figure,
micro-luoghi che sanno connotarsi sul piano poietico in virtù della loro
sostanza immaginifica. Lo sguardo di Verri è infatti prospettico e
frammentato, rivolto al molteplice più che all’unitario. Ciò che ci
restituisce il testo di Giorgino è un autore il cui tratto più originale
sarebbe quella matrice locale, incursioni dialettali, «eletta a
paradigma, con la direttrice, questa sì determinante, che si fonda, più
modestamente, sulla riscoperta del folclore salentino. […] Del concetto
verriano di salentinità intesa come recupero e valorizzazione delle
proprie radici e come passaporto per un aperto e sistematico confronto
con la grande cultura europea» (Giorgino S., 2013, p.25). Eppure
l’elemento folclorico non appare, a mio avviso, come radicamento e
riscoperta, ma esclusivamente come mezzo, polivalente, per aprire e
aprirsi al mondo. Gli inserimenti dialettali infatti spaziano, in un
gusto postmoderno per la citazione, il gioco, il recupero e la
successiva creazione “altra”, dalle varie declinazioni del dialetto
salentino fino ad altri dialetti italiani, siciliano, napoletano, romano
ecc. La geografia letteraria di Verri è nazionale e globale, guardando
alle altre lingue. Diversamente, nell’analisi di Giorgino, l’autore è
colto in uno strabismo che lo porta a guardare alla cultura europea ed
al recupero del folclore locale, inteso, questo, nella doppia via del
recupero e dell’apertura. Proprio l’elemento del recupero, nei fatti, è a
mio parere disinnescato dall’estensione nazionale della geografia dei
dialetti che in Verri coesistono, mischiandosi. Questa radice, più che
folclorica, appare come storica, dunque politica (le operazioni di
Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, entrano ed
escono in suggestioni dall’opera di Verri, così come l’opera di Stefano
D’Arrigo, ed il loro carattere al contempo storico e politico).
3.3 Fra Neoavanguardia e Zanzotto o fra Roversi e Postmodernismo?
L’esplosione
della società dei media, il conseguente apporto di una
ipercomunicazione, una comunicazione di massa come produzione di una non
comunicazione (troppa informazione si risolve nel suo contrario),
pongono l’artista davanti ai limiti dell’appiattimento culturale,
sociale, una omologazione dei linguaggi e delle esistenze. Da qui anche
l’impossibilità della creazione, una finitudine delle possibilità
formali dell’opera che nel postmoderno è disarticolata ripescando e
rileggendo il passato. Entrano nell’opera di Verri, con piglio
spiccatamente postmoderno, il gusto per il gioco e l’elencazione, memore
dell’amore giovanile per Gozzano – importante qui considerare la
poetica dell’oggetto gozzaniana – ed uno sguardo che a partire da questa
ripresa vivificante del passato, postmoderna, tende alle invenzioni del
modernismo di Eliot, il correlativo oggettivo. Il modernismo, in altra
maniera e sempre nell’ottica postmoderna, entra attraverso la presenza
costante di quello che può essere considerato il leitmotiv dell’opera
verriana, la matrice letteraria, l’opera di Joyce, del suo Le gesta di Stephen (Il poeta è l’intenso centro vitale del suo tempo, scriverà Joyce – da cui gli intarsi metaletterari che caratterizzano l’intera produzione di Verri), all’Ulisse ed i suoi flussi di coscienza, fino alla prova del Finnegans Wake,
il conseguente plurilinguismo, la dissoluzione della trama e l’uso
smodato del neologismo (questo filtrato attraverso le esperienze del
postmodernismo italiano, Consolo e D’Arrigo). Elementi, questi ultimi,
che da Giorgino vengono ricondotti alla Neaovanguardia, piuttosto che
alla matrice fondamentale dell’opera di Verri, e la riduzione delle
vicende ad una «descrizione di una quotidianità minimale» (Giorgino,
2013, p. 27) non sembra aderire ai romanzi verriani, al cui interno la
quotidianità dal punto di partenza del reale appare trasfigurata, sì,
«nell’onirico e subliminale» (Ivi) ma piuttosto in
soprannumero, ebollizione, ripetizione costante degli elementi, la cui
costruzione è sempre in dialogo con gli spazi vuoti, i silenzi,
l’intertestualità, gli spazi bianchi, il nulla, lontana dal timore
barocco dell’horror vacui e vicina a quella pratica gestuale, alla
violenza istintuale di un Pollock che sulla tela vede la costruzione
dell’opera nei dialoghi costanti con lo spazio della tela, sulla quale
agisce dall’alto verso il basso (come il protagonista della Betissa
opera con le parole in una gestualità dall’alto verso il basso, a metà
fra il gestualismo statunitense e certe riprese dal sapore DADA) proprio
per poterne avere un maggiore controllo spaziale. L’Antonio Verri di
Giorgino è un autore in bilico fra Neoavanguardia e Postmoderno con lo
sguardo puntato al Galateo in Bosco di Zanzotto.
«Dal
confronto con i poeti più illustri della seconda metà del Novecento
balzano subito agli occhi le affinità, ad esempio, con il Sanguineti di Laborintus o lo Zanzotto de Il Galateo in bosco;
tuttavia risulta anche piuttosto evidente che mentre questi ultimi non
si lasciano invischiare nella melassa indifferenziata del significante,
né da un “atteggiamento puramente delibativo ed edonistico” – portando
sempre alla semantizzazione anche la parola più insignificante o il
gioco linguistico –, in Verri, invece, spesso ci si arresta prima, cioè
alla fase della constatazione di un deragliamento del senso e
dell’incomunicabilità della parola» (Ibidem pp. 113, 114).
Ma partiamo qui dal percorso di Zanzotto, dal processo autorale de La Beltà, proprio di una lingua orale, non scrivibile, strutturata in sillabe allitterative, fino alla prova de Il Galateo in bosco,
momenti poetici che evidenziano quanto per l’autore esista una
possibilità di memoria nel dire creativo, rintracciabile a partire
dall’infanzia, dalla frantumazione del verso in particelle significanti
che parlano per balbettii, cinguettii lallazione, tutti elementi,
presenti anche nel Galateo, che appaiono lontani dalla struttura poetica di Verri. La lingua, in Zanzotto, è la lacaniana lalangue, appunto derivata da lallation,
in riferimento a ciò che è fecondato, ingravidato, effetto di
lallazione manifesto nella prima relazione linguistica del bambino con
la madre. Lalangue è la lingua materna che noi abitiamo, che
non scegliamo e che parla in noi. Non appartiene al sociale, dunque non
alla cultura, né al padre, ma è nel corpo e vivifica il soggetto.
Istintiva, appare in Zanzotto come un godimento del significante, un
momento poetico che volge lo sguardo ad un puro godimento per la lingua
in sé, riscontrabile nella frattura o discontinuità che l’autore
realizza fra significante e significato. Questa discontinuità lacaniana,
alla quale si rifà Zanzotto, è indicata dallo psicoanalista francese
col termine motérialisme, indicando il materialismo del significante. Lalangue è la lingua del resto, ossia di ciò che nell’accesso al mondo del simbolico, del sociale, si situa nel rimosso. Il gnessulògo
zanzottiano si mostra poeticamente come il luogo del rimosso, il bosco
come correlativo del rimosso, del godimento smarrito che il poeta
insegue in quella sua riproposizione della lingua madre, ma è anche un
luogo di ambivalenze, polisemie, il gnessulògo è anche
l’assenza della parola sociale, la stritolazione del linguaggio
compiuto, annegato nella frantumazione allitterativa e significante.
Elementi minimi, sillabe, si ripetono costantemente frammentando il
discorso poetico. Allo stesso modo appaiono lontane da Verri oltre che
le frantumazione zanzottiane anche le frantumazioni interne del verso
labirintico di Sanguineti. In Verri sopravvivono le coppie di
opposizione individuate da Ihab Hassan fra moderno e postmoderno.
Risultante semeiotica del linguaggio postmoderno, come contrapposizione
ad elementi di ordine e compiutezza, elaborata a partire da esaltazione
dell’irrazionale e abbattimento della metafisica (elementi prefigurati
nella filosofia nietzscheana), è riscontrabile nell’opera di Verri a
partire dall’incompiutezza stessa dei lavori letterari che è dettata
dalla frammentazione dell’io e dell’inconscio poetici dell’autore
attraverso la decodifica linguistica di tutta una serie di personaggi
che tornano a riflettersi di opera in opera, riproponendo l’autore
stesso su una serie differente di piani, di specchi in frantumi che
continuano a riflettere e riflettersi, e non terminano mai nella chiusa
dell’opera, ma che tornando a riproporsi di testo in testo, sanciscono
la continuità vitale del tessuto poetico/narrativo, delegittimando la
compiutezza dell’oggetto-libro. Dalla forma chiusa che caratterizza il
modernismo si passa all’antiforma, aperta, disgiuntiva, del
postmodernismo, al sovvertimento dei valori. Una delle opposizioni che
assume un ruolo importantissimo nell’opera di Verri è quella che vede
opposti il “disegno” al “caso” ed appare visibile nella lettera che
Alessandro, protagonista de La Betissa, scrive alla madre.
Mentre Joyce lavora sul significante ma è sempre presente un Io a
regolarne la mole e il flusso, in Zanzotto il significante stritola il
testo, frantumandone l’andamento del verso. L’esperienza verriana è
quella che si inscrive in una sonorità che non cerca la lingua della
madre, ma lo spostamento verso il femminile è concettualmente poetico,
la lingua del poeta è colta in un flusso sonoro strutturato sulle
coordinate Joyce-Bene-Dòdaro, dove per Joyce fanno testo l’Ulisse e il Finnegans Wake,
Bene, nume tutelare già nella prima prova poetica di Verri, è
quell’autore folgorato proprio da Joyce al punto che “è l’estasi sonora
ciò che conta”, e Dòdaro è il poeta della ripetizione, l’autore che
introduce Verri al suono del linguaggio del battito archetipo poi
riproposto poeticamente da Verri in una lingua-flusso, concettualmente
radicata al femminile, ascritta alle coordinate non della lalangue
ma della lingua culturale, che culturalmente propone la parola in
termini sociali di corpo che desidera. Il ruolo di Dòdaro e ciò che
comporta l’adesione poetica di Verri ad un linguaggio sonoro che attesta
la preminenza del significante sul significato (indicativo il cambio di
poetica nel momento in cui aderisce alle teorie genetiche, Cultura dei Tao e Betissa
fanno testo), ma questa dimensione, lontana dall’essere totalizzante, è
continuamente aperta ad inserimenti metaletterari, e nel momento in cui
il testo sembra franare nella non significazione volta a significare
(quasi un ossimoro) la pluralità prospettica del mondo, svelano il senso
dell’operazione e delle parole, disseminando, fra l’altro, i testi di
ispezioni sulle vicende personali del poeta, ben lontane dalla non
significazione. Il significante, comunque, domina la pagina
nell’andamento sonoro, e qui entra in gioco l’influenza di Dòdaro che
già da anni lavorava sulla verbalizzazione dei suoni e degli spazi
intertestuali (la verbalizzazione dei primi appare copiosa in Verri).
Delle annotazioni o finte note a margine, dei segni e delle grafie che
estendono, riprendendo il lavoro di Pound con la punteggiatura e gli
ideogrammi o gli inserimenti volti al pervertimento della storia
nell’opera di Emilio Villa, la costruzione della parola in Zanzotto, in
Verri, neppure l’ombra, così come il verso verriano si mostra lontano
dalla frantumazione in balbettii tipica di Zanzotto. Nell’esperienza
poetica di Verri sembra invece importante l’andamento rizomatico
dell’approccio roversiano, il cammino del poeta bolognese caratterizzato
dal gusto verso il collage espressionistico, la discorsività del verso e
la parola divaricata e ritmata nello strumento poetico
dell’enjambement, la capacità descrittiva, la registrazione degli eventi
con inserimenti, lacerti prosastici, e l’elemento Storico, la sua
rilevazione, come consapevolezza politica, condizione etica dell’autore,
si manifestano nella pratica poetica di Verri, trovando nel Fate fogli di poesia, poeti,
il momento più intenso ed esplicativo di questa influenza, e che si
inserisce, in un periodo ormai tardo, nel filone del ciclostilato
roversiano. Alter ego zanzottiano è il luogo, al tempo stesso nessun
linguaggio, in quanto nessun linguaggio socio-culturale, e
determinazione dell’esistenza stessa del poeta che affronta la
disgregazione delle cose cercando una propria determinazione in ciò che
lo precede e anticipa il sociale. Più che disgregazione (delle cose e
del linguaggio) in Verri appare una certa dissipazione, assimilabile da
un lato alla porosità della terra intesa come porosità del sociale
(Benjamin), che permetterebbe il dentro e fuori dei corpi e
l’attraversamento, in termini di dissolvenza (ancora Benjamin),
dall’altro al viscerale rapporto con gli spazi aperti (da qui i Poeti Selvaggi)
dove la scrittura in termini di corpo desiderante disperde tracce,
dissipando l’autore che non pone a sé un luogo in quanto limite della
propria esistenza (Zanzotto), al contrario avversa il limite,
disperdendosi. Il luogo verriano non è mai la das ding, ma una
serie di costrutti, elementi minimi e spesso di derivazione naturale,
eppure sociali, radicati alla prassi dell’uomo (il vino, il pane) oppure
correlativi dell’invasione significante che attraversa l’uomo stesso, e
tutti recuperati sempre non in seno al limite ma all’apertura in quanto
sostanza poetica. Elementi tipici del surrealismo appaiono in Verri non
legati alla terra-carne zanzottiana, ma entrano in gioco con l’adesione del poeta di Caprarica di Lecce al Movimento di Arte Genetica, in quanto già caposaldo da tempo, il Surrealismo, della ricerca poetica di Dòdaro (Dichiarazione onomatopeica, 1979, e Progetto negativo,
1982, anticipano l’opera di Verri, rimarcando ancora una volta una
linea di ricerca che porta a Verri direttamente da Dòdaro), al punto in
cui nelle prime prove letterarie di Verri (Il Pane sotto la neve e Il fabbricante di armonia) emergono, fin lì, come massimi riferimenti, Joyce e Roversi.
Inoltre
il gusto per le elencazioni, per una poetica degli oggetti, da Gozzano a
Eliot fino agli inserimenti di Roversi, apre la strada all’idea
verriana del Declaro (il nome è una ripresa del Liber Declari
dell’abate Angelo Senisio), ovvero il libro che doveva racchiudere il
mondo, che qui non ci sembra legato all’idea di vuoto in Bodini «Il
debito di Verri nei confronti di Bodini non si limita solo a queste
citazioni esteriori, ma riguarda anche alcuni aspetti più profondi della
sua poetica: il sogno del declaro, ossia lo sforzo sempre vano di
racchiudere il mondo dentro un libro, leit motiv di tutta la sua
produzione posteriore, nasce dallo stesso seme da cui germina il barocco
bodiniano» (Ibidem p. 33) ossia, afferma Giorgino riprendendo Giannone
«un horror vacui, che si cerca di colmare con l’esteriorità,
l’ostentazione, l’oltranza decorativa» (Giannone, 2003, p. 14). Qui si
ritiene opportuno percorrere un’altra strada, un’altra angolazione, in
quanto, come già scritto precedentemente, si ritiene il vuoto, il nulla,
il niente, fondamentale alla poetica di Verri, un nodo alla gola che ha
sostanza poietica e che torna in due diverse accezioni: un niente che
non è innocente, e un niente, un nulla, un vuoto, con cui il poeta è in
continuo dialogo e da cui attinge sempre nuova linfa per i suoi versi
(da qui il precedente accostamento alla costruzione pittorica di
Pollock, amato da Verri, ma anche la pittura di Edoardo De Candia, in
cui il segno dialoga intensamente con lo spazio vuoto della tela
concorrendo, entrambi, alla costruzione dell’opera). In questa stessa
linea, nel solco di un nulla, di un vuoto inteso come matrice poetica,
entra la trasposizione letteraria che Verri attua del paradosso del
silenzio di John Cage. Diversamente dalla Neoavanguardia, che guarda al
linguaggio massmediale opponendovi una oralità disarticolata, nel
tentativo di praticare un sabotaggio nella lingua mercificata, Verri
nutre la sua dimensione su due direttrici: sul piano editoriale e
dell’operatività culturale attacca la mercificazione, sul piano del
linguaggio è di continuo attratto da questa esplosione massmediale e di
questa, riprendendo lo sguardo dòdariano verso i new media, si mostra
attento osservatore, riproponendo flussi di bit, d’informazione, di
tecnologie varie all’interno delle sue opere, amalgamando anche
riferimenti a questi linguaggi nelle sue opere di poesia verbo-visiva.
Verri appare alla costante ricerca del “gergo nuovo”, una tensione
inquadrabile nelle parole di uno dei suoi autori di riferimento, Jack
Kerouac: «così sto a letto nel buio e vedo e ascolto il gergo dei mondi
futuri: muggicchi ilòd chec scgekgik dlud dlud dddd icchiù
sgesgesgeccokò che sarà comunque sempre meglio dell’altro cioè il sig?
or macmurphy usic da garidino o meno balordo di attrarvsreò lqstrsdaq –
velpondendulo! – robetta così che ti viene quando scrivi a macchina; e
invece è il gergo, il linguaggio della corrente del fiume dei suoni,
parole, buio, che portano al futuro» (Kerouac, 1960, p. 52).
3.4 Poesia verbo-visiva
Elemento
di punta delle esperienze verbo-visive nel Salento, Francesco Saverio
Dòdaro è da considerarsi, per il riconoscimento critico da un lato, e
dall’altro per il riconoscimento che negli anni ha riscontrato fra gli
operatori e gli autori internazionali dei linguaggi di ricerca, come uno
degli autori fondamentali dei primi 100 anni di storia della poesia
verbo-visiva (ad esempio, con le sue opere e le sue collane sperimentali
– Mail Fiction, Diapoesitive, Internet Poetry
è inserito nell’importantissimo volume “Poesia Totale. 1897-1997: Dal
Colpo di Dadi alla Poesia Visuale” curato da Sarenco ed Enrico
Mascelloni e che raccoglie le esperienze internazionali più
significative). Proprio in riferimento alla collana sperimentale Diapoesitive,
ideata da Dòdaro ed edita da Verri, Giorgino scrive che «L’opera di
Verri è attraversata da suggestioni extraletterarie che emergono
nitidamente in alcuni lavori di sperimentazione sinestetica come le Diapoesitive. Scritture per gli schermi.
È il caso, ad esempio, della pittura, disciplina in cui l’autore provò
anche a cimentarsi, affascinato com’era dalle opere di artisti salentini
come Edoardo De Candia, Ezechiele Leandro, Lucio Conversano e Antonio
Massari» (Giorgino, 2013, p. 49). Nell’analisi di queste suggestioni
extraletterarie viene meno il fatto che con la collana Diapoesitive,
si parla di poesia verbo-visiva, e che tali forme di sperimentazione
letteraria, inter- e poi trans-mediale, hanno origine nelle rotture
poetiche di Mallarmé e Apollinaire, nelle esperienze di Carlo Belloli e
della fiumana di poeti concreti a lui seguiti, e che la pittura è un
discorso altro. Tanto che Verri, seppur affascinato dalla pittura di De
Candia, praticava in quel periodo poesia verbo-visiva (un altro esempio
sono le tavole poi raccolte in Il suono casual, opere
verbo-visive ispirate alla figura di John Cage), andando in cerca di
scarti tipografici, fra le tipografie leccesi, proprio con Dòdaro, per
poi utilizzarli per le loro opere.
Da Utsanga.it
Titoli citati:
Bodini V., Barocco del Sud. Racconti e prose, Galatina, Besa, 2003
Giorgino S., Antonio L. Verri. Il mondo dentro un libro, Copertino, Lupo Editore, 2013
Bonea E., Ma il libro postale non è una novità, in Quotidiano di Lecce, 12-13 aprile 1992
Cazzato S., Nasce in Puglia la “narrativa”, in Notes. Appunti dal Salento, 22 febbraio 1992, Anno III n. 6
Dòdaro F. S., Codice Yem, Lecce, Ghen, 1979
Dòdaro F. S., Link, Lecce, Ghen, giugno 1978
Dòdaro F. S., Mail Ficion. Free Lances, 1991
Kerouac J., I Sotterranei, Milano, Feltrinelli, 1960 [2009]
Nocera M., Danzare la gioia, danzare il dolore, Università Popolare Aldo Vallone, 25 aprile 2011
Verri A., Il naviglio innocente, Maglie, Erreci, 1990
Verri A., Lettera di adesione al Movimento di Arte Genetica, SudPuglia, 1989