Antonio Leonardo Verri (Caprarica di Lecce, 22 febbraio 1949 – 9 maggio 1993), poeta, romanziere, editore, operatore culturale, giornalista, aderì al Movimento di Arte Genetica fondato nel 1976 da Francesco Saverio Dòdaro e a partire dalla fine degli anni ‘70 si fece ideatore e promotore di riviste letterarie quali “Caffè Greco” (1979-1981), “Pensionante de’ Saraceni” (1982-1986) e “Quotidiano dei Poeti” (1989-1992), quest’ultimo andò ad intersecarsi dal 1991 con “Ballyhoo-Quotidiano di comunicazione”. Dal 1986 al 1993 collaborò con “Sudpuglia” e nel 1990 diresse “On Board”. L’impegno di Verri si collocava a pieno titolo in quelle aree della militanza culturale pugliese che dalle figure dei Fiore, Tommaso e Vittore, aveva avuto modo di articolarsi come prassi politica e letteraria, tentando un intervento attivo sul sociale, attraverso un investimento letterario e giornalistico che non lesinava polemiche, al punto che l’opera del poeta di Caprarica di Lecce è attraversata da invettive che spaziano dalle critiche al mondo editoriale a quelle rivolte all’immobilismo accademico. Curò le attività del Centro Culturale Pensionante de’ Saraceni e la collana “Abitudini. Cartelle d’autore” (1988-1990), contribuì alla collana “I Mascheroni” (1990-1992) per Erreci Edizioni, ed entrò come co-curatore ed editore di una serie di collane ideate da Francesco Saverio Dòdaro – “Spagine. Scrittura Infinita” (1991), “Compact Type. Nuova Narrativa” (1990), “Diapoesitive. Scritture per gli schermi” (1990), “Mail Fiction” (1991) – con le quali Dòdaro rileggeva la forma-libro pervenendo a violazioni estetiche e fruitive. A Cursi (Le), Verri istituì il “Fondo internazionale contemporaneo Pensionante de’ Saraceni”, una biblioteca composta da oltre tremila volumi. Per non smentire la sua vocazione di operatore culturale, organizzò due edizioni di una mostra mercato di poesia a cui diede il nome di “Al banco di Caffè Greco”. Organizzò, inoltre, due mostre: la prima su Joyce e Raymond Queneau, la seconda sul gioco dello Scrap (gioco di scrittura attraverso l’uso di scarti tipografici). Una semiautomatica per manifesti ha dato alla luce le sue prime opere, interamente stampate da sé. Rispettando il suo manifesto poetico, “Fate fogli di poesia, poeti, vendeteli per poche lire”, ha effettuato volantinaggio di poesie. Morì il nove maggio del 1993 in un incidente stradale.
1.
 La proposta autorale di Antonio Verri, 
nel periodo che qui si vuol considerare come suo apprendistato poetico –
 dal fare rivista sul finire degli anni ‘70 a “Il pane sotto la neve” 
(1983), fino a “Il fabbricante di armonia” (1985) –, appare colta in un 
doppio vincolo; se da un lato l’autore non si risparmia dal punto di 
vista dello scandagliare le radici popolari, dall’altro queste sono 
ricercate non come espressione di un localismo letterario, al contrario 
già dalla prima raccolta poetica, “Il pane sotto la neve”, appunto, 
Verri, lungi dall’esaurire il discorso sul “popolare” al solo Salento, 
procede in una estenuante ricerca che lo porta ad affrontare idiomi 
provenienti da tutta Italia. Ritroviamo questo doppio vincolo come 
caratteristica preponderante della prima parte della produzione 
letteraria di Verri, il più delle volte esplicitata nella tensione 
amore-odio che caratterizza il rapporto dell’autore con il territorio 
d’origine. Si notino i diversi connotati del dualismo verriano dal 
rapporto amore-odio di marca bodiniana che sfociava nei versi «Qui non 
vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese / così sgradito da 
doverti amare»; se il poeta de “La luna dei Borboni” viveva afflitto da 
questa coppia oppositiva, l’amore-odio in Verri si sviluppava su 
coordinate composite. Verri infatti, lontano dall’esprimersi nei termini
 bodiniani sopracitati, costruiva un itinerario d’amore che a ben 
guardare isolava determinati punti di contatto col territorio, 
formulando una mappa dei suoi tòpoi, mostrando una serie di luoghi e 
motivi (da Castro a Otranto, da Cardigliano ad elementi altri, quali il 
vino ecc.) che assurgono a schema reiterabile che l’autore, di fatto, 
elegge a struttura nelle varie tappe della sua produzione letteraria. In
 questo senso, il doppio vincolo amore-odio non risulta esteso al 
Salento nella sua totalità, al contrario l’amore appare radicato in una 
serie di punti di sutura geo-esistenziali che costituiscono la 
reiterabilità poetica dei luoghi; difatti, questi, sono scelti per la 
loro sostanza poetica senza identificarsi con la totalità del 
territorio. Al contrario, l’odio è articolato nell’attitudine polemica 
che attraversa l’opera verriana, scagliato contro un territorio 
colpevole di autoisolamento, opportunismo e clientelismi vari. “Il pane 
sotto la neve”, aperto da un omaggio ad un nume tutelare della poetica 
verriana, Carmelo Bene, procede sulle coordinate Bene-Joyce, 
Lorca-Bodini, senza dimenticare le esperienze di Consolo e D’Arrigo, ma 
anche Pavese ed uno sguardo già teso verso la Beat Generation di Kerouac
 e Ginsberg. Il lorchismo italiano, nella fattispecie quello di marca 
meridionale, tracciato negli anni da Carrieri e Bodini, è in parte 
eletto a modello da Verri in questo primo frangente della sua opera, 
salvo poi procedere ad uno scarto, sposando fin dall’esperienza de “Il 
pane sotto la neve” gli stilemi del postmodernismo, i quali trovano agio
 nelle sue parti in prosa e nelle successive “Varianti d’autore” de “Il 
fabbricante di armonia”, dove il gusto per il gioco, le bufferie, il 
calco, l’elencazione, il neologismo, diventa carattere predominante 
sancendo un “andare oltre” rispetto alla poetica bodiniana. In una 
raccomandazione del 1987, poi pubblicata in apertura della riedizione de
 “Il pane sotto la neve” (Kurumuny 2003), Verri affermava che «fare 
letteratura, da un bel po’, vuol dire soprattutto corteggiare, 
avvicinarsi, al romanzo» e allo stesso tempo parlava di un omaggio alle 
radici contenuto nel libro. Il motivo dell’opera trova nella coppia 
oppositiva amore-odio ancora elementi di sviluppo. La pratica poetica, 
se da un lato cerca i genitori, le radici, dall’altro è già proiettata 
altrove e a testimonianza di ciò è possibile far riferimento all’ampio 
campionario di termini provenienti dai più disparati dialetti della 
penisola, i quali, assieme alla ricerca sul folklore salentino, 
concorrono alla costruzione di neologismi e di una lingua materica, 
composita, mescidata, costruita su corrosive stratificazioni culturali. 
La costruzione di un melting pot letterario procede sin dalla prima 
opera, agendo sulla falsariga di un Joyce omaggiato al punto da far 
coincidere l’alter ego verriano col personaggio joyciano di “Stefan” 
(Stephen Dedalus).
 La curiosità verso le culture popolari è 
manifestata in maniera chiara a partire dalla pubblicazione del testo 
“La cultura dei tao” (1986) in cui l’autore afferma che «i proverbi 
aprono al mondo». La direzione che il popolare assume nell’opera 
verriana appare così determinata al raggiungimento di una apertura, di 
una forzatura dell’orizzonte poetico e conoscitivo tale da rompere gli 
argini territoriali. In questo periodo Verri ha già conosciuto Dòdaro, 
ne sono prova la partecipazione di quest’ultimo alle riviste verriane, 
le quali erano in un primo momento a carattere prettamente locale, dalle
 tematiche agli autori coinvolti, salvo poi dilatare gli orizzonti a 
partire dal contatto, dall’amicizia e dalla collaborazione di Verri con 
Dòdaro. L’incontro Dòdaro-Verri può essere inquadrato nell’ottica 
dell’influenza del primo sul secondo, seguendo la formula utilizzata da 
Bufalino per qualificare l’influenza di Poe su Baudelaire; ossia nei 
termini di un «vampirismo intellettuale» che comporta nel caso di Verri 
un salto ed una maturazione poetica. Sulle pagine delle riviste verriane
 l’orizzonte si amplia, vengono ospitati numerosi autori provenienti 
dall’ampio raggio di collaborazioni dòdariane, da Lamberto Pignotti a 
Luciano Caruso, da Klaus Groh a Ugo Carrega ecc., e allo stesso tempo è 
Verri ad aprirsi al mondo, seguendo la formula poi indicata in “La 
cultura dei tao”, stabilendo una serie di contatti autonomi, che in una 
parte esigua e non rilevante, dunque non programmatica, aveva avviato 
già a partire da “Il pane sotto la neve”, ampliandola in maniera 
considerevole, aderendo, inoltre, alla tessitura propria di quel 
“Salento europeo” che l’autore ricordava nella nota biografica del suo 
“I trofei della città di Guisnes” (1988), ovvero quel «Movimento 
Genetico di F. S. Dòdaro, una delle linee portanti del Salento europeo».
 Nel 1988 Antonio Verri formalizzava la sua adesione al movimento di 
Arte Genetica, ma si trattava solo di una tardiva formalizzazione, in 
quanto l’autore aveva già da tempo iniziato a nutrirsi delle ricerche 
dòdariane. Nella sua lettera di adesione scriveva: «Caro Saverio, ecco 
la mia formale adesione al Movimento Genetico: dico formale perché tu 
sai benissimo da quant’è che ho assorbito (e anche usato: Betissa e 
Trofei fanno testo) le tue intuizioni genetiche, le tue geniali idee, i 
tuoi voli, i vastissimi campi che possono essere esplorati dal tam tam 
armonioso, materno, disarmante, monotono, primordiale, vitale; quanto la
 poetica del tuo Movimento non dia altro, in definitiva, che l’idea del 
corpo che racconta, copula, plasma, irrita.. […] Intanto aderisco, dopo 
ti verrò a trovare perché, lo sai, non ho finito di usarti. Sto 
chiedendomi per il Declaro, qual è (eccome) il segreto della ripetizione
 o lo scavo, l’intreccio, la radice delle parole» (Verri, in Sudpuglia, 
1989). A partire da “La cultura dei tao” l’opera di Verri è segnata da 
un radicale e progressivo slittamento verso l’adesione al “femminile” in
 quanto matrice e orizzonte della poetica, un passaggio espresso in una 
forma embrionale nel testo del 1986 e definitivamente raggiunto nel 1987
 con “La Betissa. Saga composita dell’uomo dei curli e di una grassa 
signora”. È proprio la “Betissa” a farsi portavoce di quanto poi 
l’autore affermerà nella lettera di adesione al Movimento Genetico. La 
scrittura, intesa nei termini di un corpo che racconta è dunque un corpo
 desiderante che sotto i colpi della parola, la quale veicola il 
desiderio, è teso ad una continua ispezione e sedimentazione 
dell’anthropos del quale tenta una trasposizione letteraria dove 
«finalmente muoversi nell’oggetto del suo desiderio», come riporta Verri
 a pagina 30 del suo “Il naviglio innocente” (1990). Dall’esperienza di 
La Betissa in poi la madre appare sempre più radicalizzata e presente, 
fondante l’intero asse della poetica verriana, ma non più assimilabile 
alla figura della madre biologica, al contrario è colta nel movimento 
desiderante della scrittura che in continuazione vede l’oscillazione di 
questo desiderio entrare-uscire dalla madre in quanto tale che poi 
appare come madre terra, mare, acqua, e quanti oggetti e visioni si 
mostrano al poeta nella sua percezione autorale, in un tutto spesso 
indistinto e senza forma, o quasi, che permette appunto l’estenuante 
oscillazione della figura della madre in una frammentazione continua di 
figure diverse. In questo senso subisce un duro contraccolpo anche la 
figura dell’autore che smagrisce nel testo, diviene flebile. Attraverso 
il contatto con l’opera dòdariana è l’adesione alle teorie di matrice 
postfreudiana a delegittimare il soggetto autorale. L’Io è decentrato, 
la fissazione identitaria appare incline allo smarrimento, si perde al 
punto che l’autore è dislocato, è altro da sé e sconfina in una 
costellazione di personaggi e luoghi, laddove la terra appare “porosa”, 
recuperando l’amore verriano per l’opera di Walter Benjamin, ed i 
confini fra corpo e spazio si fanno sempre più labili. Da questo punto 
di vista, un tassello importante è dato, proprio in “La Betissa”, dalla 
vicinanza di Verri all’opera di Samuel Beckett, in particolare il testo 
verriano ricorda nella struttura e in alcune concezioni dello spazio 
l’opera “Non io” dell’autore irlandese dove è possibile esperire il 
corpo in quanto spazio; infatti sulla scena beckettiana appare una bocca
 e solo quella è illuminata, il resto del corpo scompare nello spazio 
buio del palco. Scrive Beckett: «Bocca: fuori. / dentro a questo mondo. /
 questo mondo. / piccola minuscola cosa. / prima del tempo. / in questo 
dio porc- / cosa?», e sembra fargli eco Verri: «Uno, punto sull’uno! / 
Nulla lasciano di verde, nulla d’intatto / Due, punto sul due! / Nella 
bocca maligna innestano una baionetta, e alla luna che si vela offrono 
il dorso». Quella di Verri, da “La Betissa” in poi diventa così una 
lingua sonora, melo-logica, improntata alla preponderanza sonora del 
significante, ma senza apparire stritolata da questo in un marasma 
primordiale come possiamo ritrovare in Zanzotto, via Emilio Villa, al 
contrario quella di Verri permane come lingua sociale, culturale. A 
legittimare l’ipotesi di una lingua-suono è proprio Verri che a pagina 
38 della Betissa riporta «Mi accorgo solo ora che dòdaro ha ragione, che
 poesia è ripetizione», facendo un chiaro riferimento alla teoria 
genetica elaborata da Dòdaro e al conseguente battito materno come 
matrice dei linguaggi, dunque suono e ripetizione. La scrittura appare 
mitizzata, si pensi alla lettera di Alessandro, protagonista di La 
Betissa, che indirizzata alla madre mostra come lo spostamento 
all’interno del mito di Icaro dalle ali di cera al trabiccolo volante di
 scrittura, metta in atto un processo di mitizzazione delle parole che 
in Verri, avendo connotati desideranti, altro non sono che il corpo 
attraversato e parlato dai significanti, in balia del contesto perché 
indistinto da esso; la scrittura mitizzata è lasciata depositare ed 
entrare-uscire dal corpo. La scrittura-madre, corpo-madre e 
corpo-autorale, è colta nella dicotomia leggerezza-pesantezza, laddove 
nelle ultime opere dell’autore si manifesta sempre più il carattere di 
pesantezza, dell’impossibilità, del fardello dell’eterno ritorno. In 
questo senso gli elementi della poetica vanno e vengono, tornano sempre 
amplificati e i tòpoi verriani si ripetono in quanto struttura poetica e
 narrativa, di volta in volta attraversati dalle diverse suggestioni del
 momento.
2.
La reiterazione dei tòpoi letterari in Antonio 
Verri, inquadrabili nei termini di struttura poetico-narrativa, 
contribuisce a modellare l’opera sui piani del processo. Il tema 
dell’incompiuto, del non finito, anima e attraversa la scrittura 
verriana. In questo senso, dalla prima prova poetica, “Il pane sotto la 
neve” (1983), al postumo “Bucherer l’orologiaio” (1995) il cerchio si 
chiude solo all’apparenza: sta di fatto che l’opera permane come 
incompiuta. Il progetto del “Declaro”, il libro, bullonato e infinito, 
che doveva racchiudere il mondo – ossia un agglomerato, un brogliaccio 
di documenti, fogli, scritti, nomi ecc. – si mostra, in realtà, solo 
come una parte di quel tutto che è il “Declaro” stesso e che va oltre 
l’idea del grande libro bullonato. La messa in opera del corpus verriano
 evidenzia la reiterazione ciclica dei motivi, degli elementi, nelle 
opere; di libro in libro ogni elemento torna, amplificato e variato. 
Guisnes, la metropoli de “I Trofei della città di Guisnes” (1988), 
costruita sulla trasfigurazione letteraria del borgo di Cardigliano 
(Le), appare come la città dove tutto è parola. In questo senso Verri, 
che dedica il libro, fra gli altri, “al battito creatore di F. S. 
Dòdaro”, installa la scrittura all’interno dei concetti genetici mutuati
 dall’opera di Dòdaro (percorso già avviato con “La cultura dei Tao”, 
1986, e “La Betissa”, 1987), attraverso i quali entra in contatto con le
 teorie di Lacan e indirizza il suo sguardo ai media. La metropoli dove 
tutto è parola appare afflitta dallo statuto ontologico del linguaggio 
che tutto avvolge e in sé accoglie. La scrittura diventa parabola 
vitale, amplificandosi di testo in testo, in un processo che accresce la
 parola e traccia la parabola vitale del poeta attraverso la rilevazione
 degli umori, delle stanchezze, degli stordimenti. Il destino del 
narratore de “I Trofei della città di Guisnes” appare segnato fin dal 
suo nome: Guardone. Il narratore verriano, che è l’autore e una miriade 
di personaggi, è una pluralità di “altri” che parlano attraverso di lui 
che si osserva nel mentre è parlato dai significanti. Nel romanzo 
“Ballyhoo Ballyhoo!” pubblicato nella collana “Compact Type. Romanzi in 
tre cartelle” – ideata da Dòdaro e edita da Verri per le sue Edizioni C.
 C. Pensionante de’ Saraceni nel 1990, il “fantasma di Lacan” è rilevato
 da Giovanni Invitto, in un articolo apparso il 23 febbraio 1990 sul 
Quotidiano di Lecce, che scrive: «Ritorna il fantasma di Lacan, di chi 
ci avverte del contrasto tra l’Io che parla e l’Io che è parlato […]. 
C’è l’Altro che parla noi, siamo megafoni dell’Altro. […] Questa 
decifrazione è, in Verri, nausea ma anche ritmo, “gioco per il piacere 
del gioco” e autoconoscenza, ma soprattutto autoproduzione: “Ogni sera 
ero tutti gli oggetti che riuscivo a proiettare”». La dimensione 
ritmico-psicoanalitica, mutuata da Verri dalle ricerche di area 
dòdariana, sposta il raggio d’azione della parola sulla condizione 
plurima del soggetto privo di centro che, nel suo indebolirsi, instaura 
un rapporto di sconfinamento con le superfici degli oggetti, recuperando
 il dato esperienziale del corpo husserliano, la dimensione 
fenomenologica della coscienza che è sempre “coscienza di”, guardando 
agli oggetti in termini di superfici fluide e malleabili; passaggio, 
quest’ultimo, che si registra in maniera consistente nel successivo “Il 
Naviglio innocente” attraverso la metafora della grande nave “numerosa e
 mnemonica. Immensa forma esclusa” che, come un grande motore di 
ricerca, tutto contiene e stratifica linguisticamente in elenchi, 
accumuli ecc. al punto che a pagina 25 del “Naviglio” si legge: «Una 
sofisticatissima rete integrava, in un amalgama incosciente, dati e 
suoni e immagini; l’opera continuamente si nutriva […]. L’opera si 
rinnovava». Lo scavo verriano è quello di una autoesplorazione che 
culmina, dalla “Betissa” in poi, in una reiterazione ossessiva e 
accrescitiva degli elementi negativi. Il soggetto-autore, spossessato, 
in balia delle parole, dei significanti, evidenzia l’impossibilità del 
racchiudere il mondo e le sue strutture nelle parole. Il sogno 
mallarmeano del mondo in un libro è trasposto nei termini di una 
scrittura-processo: continuo divenire. Il carattere incompiuto è l’atto 
con il quale l’autore trattiene nelle sue pagine il mondo in balia di 
una molteplicità estrema. La presa di coscienza de “La cultura dei Tao” 
dei “proverbi che aprono al mondo” evidenzia, a questo punto, il 
tassello di partenza rappresentato da quei tòpoi popolari, luoghi e 
motivi culturali, che riecheggiano nell’opera in virtù della loro 
sostanza poetica e che in questo aprire al mondo perdono il carattere 
dell’individuazione localistica, mutuando, dall’esperienza joyciana, 
l’universalità che l’Irlanda assumeva nell’autore di “Ulisse” e 
“Finnegans Wake”. Di fatto, la scrittura de “I trofei della città di 
Guisnes” (1988), installa nel borgo salentino di Cardigliano 
l’immaginario della metropoli con i suoi eccessi mediali, di linguaggio,
 i suoi surplus di comunicazione che si riflettono nelle modalità di un 
brusio linguistico, narrativo, costante e volto ad esprimere 
l’impossibilità del silenzio elaborata da John Cage. In una nota 
riguardante “Il Naviglio innocente” (1990), apparsa sul numero di marzo 
1998 di Apulia, notava Gino Pisanò come «Verri risillaba il sentimento 
dell’esclusione in questo manifesto della sua poetica affidato […] a un 
linguaggio medianico che rivela e trascrive le pulsioni oscure dell’Es, 
le visioni allucinate, la follia, le ossessioni, la Vorstellung del 
mondo che solo il deragliamento dei sensi produce». Il tentativo del 
Guardone-Narratore – ossia di colui che è parlato e si osserva, nel suo 
essere altro da sé, nell’essere parlato – è quello di chi vuol tentare 
l’impossibile: essere nel linguaggio, essere linguaggio ed al di fuori 
di sé per osservarsi; ossia un linguaggio che riflette sul linguaggio, 
ma dal di fuori, condizione, questa, che esprimerebbe l’impossibilità di
 tale struttura e che è mostrata dall’opera di Wittgenstein, quel 
bloccarsi davanti ad un indicibile che per il filosofo austriaco era un 
luogo del “mistico”. Questo luogo, per Verri, diventa motivo 
dell’esistenza poetica, letteraria, diventa, nella scrittura, quel luogo
 dell’incompiuto che l’autore cerca di descrivere attraverso la messa in
 opera di stati alterati di coscienza, rilevati da Pisanò nei termini di
 un “deragliamento dei sensi”, ma che strizzano l’occhio a stati di 
trance poetica. Sempre nel “Naviglio innocente” scriveva Verri: «Ero 
sempre in tutto ma ero sempre più lontano dal mio corpo…in realtà, ecco,
 quanto più il mio romanzo da un soldo cresceva tanto più io perdevo in 
carnalità, quanto più il Declaro prendeva corpo tanto più il mio corpo 
si sfaldava». Quello al quale perviene l’autore è un rapporto alterato 
col proprio corpo e col mondo, riflettendo sul linguaggio in un 
tentativo estremo di ossessione e visione allucinata. Il mondo come 
sostanza linguistica, mediale, appare come una «nave delle parole» il 
cui corpo «brulicava di video, certamente in essa viveva una unità di 
memorie, un attrezzatissimo archivio, un vasto bosco di impulsi. […] 
Aveva cominciato un giorno di tanto tempo fa, dopo aver scoperto 
d’essere stato nel suo corpo attaccato da vari alfabeti, da forme 
navicolari, allungate, da forme anche sfumate, incerte. Era l’inizio. 
Aveva subito decretato la morte dell’oggetto unico, della singolarità. 
Gli era apparsa una grande nave» (Verri, Il Naviglio innocente, 1990).
 Questa rilevazione di un amalgama di elementi, di informazioni, di 
oggetti che nel surplus di superfici malleabili sconfinano dall’uno 
all’altro, perdendo il carattere di unicità, avanzando e proliferando 
nella promiscuità, si riflette nella parallela produzione verriana di 
poesia visiva. L’autore entra ancora una volta in contatto con un campo 
di sperimentazione a lui, in una prima fase, estraneo, e lo fa 
attraverso le ricerche di Francesco S. Dòdaro, già affermato 
sperimentatore verbo-visivo quando Verri, al suo fianco, si avventura 
fra le tipografie leccesi alla ricerca di scarti tipografici. È proprio 
il motivo dello scarto a diventare tema centrale delle esperienze 
maturate da Verri in area verbo-visiva. Lo scarto, lungi dal presentarsi
 come resto, residuo, si modula sulla superficie dell’opera a partire 
dall’accostamento di elementi differenti, i quali si attivano nella 
costruzione di uno scenario plurale: oggetti, frammenti di lingue 
diverse, slogan pubblicitari, corpi umani, materiche espressioni 
gestuali del colore, grafismo, convivono nell’opera alternando accumuli e
 momenti riflessivi in un unicum che vede la coabitazione di pieni e 
vuoti. Ciò permette di attivare nell’opera verbo-visiva il già 
collaudato meccanismo letterario dell’autore che vede il continuo 
oscillare del linguaggio poetico-narrativo fra surplus di informazione, 
accumuli, dunque pieni, e vuoti improvvisi che tentano e tastano un 
silenzio irraggiungibile, ma che nei momenti pausativi del testo 
permette l’autoesplorazione autorale. La sinestesia semantica di marca 
verbo-visiva applicata dall’autore scopre, dunque, l’intricato gioco fra
 pieno e vuoto, fra senso e nulla (quel nulla che per Verri non è 
innocente) che si produce in un sovrasenso ludico e sonoro. Le tavole 
dedicate da Verri a John Cage, raccolte dopo la morte dell’autore da 
Cosimo e Salvatore Colazzo nel volume “Il suono casual” nel 1994 per le 
edizioni Madona Oriente, ma in parte già pubblicate da Verri in “E per 
cuore una grossa vocale” (pubblicato all’interno della collana 
“Diapoesitive. Scritture per gli schermi” fondata e ideata da Dòdaro, 
edita da Verri per le sue edizioni Pensionante de’ Saraceni nel 1990), 
si fanno espressione di questa dicotomia fra pieno e vuoto. Lacerti di 
giornali, alfabeti improvvisi, grafismi marginali, parti di libri e 
riviste, fotografie di uomini e donne ritagliate, animano le 
composizioni dell’autore che stratifica questi elementi, opera per 
sovrapposizioni e tagli dei materiali che vanno a collocarsi sulla 
pagina in posizione centrale o laterale; tuttavia, in entrambi i casi, è
 la sensazione di marginalità, di chiacchiericcio, di quel “si dice” 
dell’inautentico heideggeriano a stratificarsi sulla pagina. Il vuoto 
dello spazio bianco attorno, al contrario si erge dal nulla che, per 
contrasto, non è più il bianco, ma l’annullarsi dei materiali 
logo-iconici, mostrandosi, il bianco, come nuovo luogo di parola. Questa
 condizione, oltre ad evidenziare i rapporti che la ricerca verriana 
intrattiene con l’opera di John Cage, mostra quelle influenze dòdariane 
che Verri aveva già da tempo assorbito: quel vuoto come luogo di 
creazione è la mancanza a essere lacaniana tanto studiata, assorbita e 
rielaborata da Francesco S. Dòdaro sin dagli anni ‘70.
 Nel 1990 
Verri cura il volume “Le carte del Saraceno” al cui interno raccoglie 
una scelta di operatori estetici salentini. Fra i materiali raccolti 
compaiono una serie di opere verbo-visive dello stesso Verri; si tratta 
di cinque tavole intitolate “Scrittura”, con apposita numerazione, 
datate al 1989. Verri presenta una serie di collage, mixed media 
prodotti attraverso l’utilizzo di materiali eterocliti: ritagli di 
giornale, scarti tipografici, pittura gestuale. Su tutti, fanno capolino
 i “Dis” dòdariani e le foto di John Cage a significare una continuità 
decisa, sicura, sui percorsi di commistione avviati da Verri fra la 
teoria genetica di Dòdaro e le esperienze di Cage, già evidenti nella 
scrittura de “I trofei della città di Guisnes”. L’accumulo forsennato 
dei materiali, qui, solo all’apparenza presenta una forte virata verso 
il pieno con esclusione del vuoto, del nulla; la forte stratificazione 
di lacerti di comunicazioni alfabetiche, giornali, riviste, libri, 
slogan, e poi fotografie, è interrotta non dal bianco della pagina, ma 
da decisi inserti materici e gestuali di colore i quali, all’interno del
 surplus di informazione, frammentandolo, presentano il vuoto di un 
corpo come punto nullo che risponde e cerca l’altro da sé che deve 
necessariamente essere altro dal surplus invasivo di area mediale.
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